Arpino | Azzurro tenebra | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 276 Seiten

Reihe: Minimum classics

Arpino Azzurro tenebra


1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-3389-592-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 276 Seiten

Reihe: Minimum classics

ISBN: 978-88-3389-592-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Stoccarda, mondiali 1974: Arp, accompagnato dal giovane cronista Bibì, è inviato a narrare le gesta della Nazionale. Forte del rapporto privilegiato con il capitano Facchetti e il «Vecio» Bearzot, è uno dei pochi nella posizione di prevedere la rovinosa conclusione a cui stanno per assistere: a dispetto delle grandi aspettative, sotto gli occhi attoniti di migliaia di emigrati italiani, la Nazionale viene eliminata al primo turno. Pagina dopo pagina, nelle chiacchiere sempre più amare tra Arp e i colleghi (tra tutti Gianni Brera), i cupi presagi sulle sorti del mondiale e dei suoi protagonisti - Valcareggi, Riva, Rivera, Mazzola, Anastasi, Chinaglia - si confondono con le sorti politiche di un paese che appare condannato, con quelle di un giornalismo in decadenza e di un calcio già ammalato nel quale il divismo sta per soppiantare la poesia. Arpino tratteggia un romanzo a tinte fosche in cui tutto - le rivalità di spogliatoio, l'inadeguatezza dei dirigenti, il tramonto delle glorie di cui nessuno è pronto ad accettare il declino - è trasfigurato dal suo talento per le storie, in cui sotto la pioggia insistente dell'estate tedesca l'azzurro vira verso le tenebre e i luoghi si fanno sempre più spettrali: il castello del ritiro, i bar desolati dove fermarsi a bere a notte fonda, le tribune deserte dopo il fischio finale. A cinquant'anni dal tragico mondiale Azzurro tenebra - il primo romanzo sul calcio della nostra letteratura, mai eguagliato per forza e poesia - resta un libro indimenticabile, un divertente e malinconico canto d'amore per un calcio che dona più dolore che gioie e, come dice Arp, «è anche quello che non è»

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Descrizione di una disfatta



Che città è mai questa? Che specie di vivere? Siamo dei sopravvissuti.

Giovanni Arpino,

Giovanni Arpino ha appena esordito sulla come giornalista sportivo quando, il 22 febbraio del 1969, si vede apostrofare da Pier Paolo Pasolini in una rubrica sul settimanale . Lo scritto parrebbe non ammettere repliche e segnare, anzi, un confine tra chi vede ancora nello sport una forma specifica della cultura contemporanea e chi vi individua il trionfo della forma-merce, ovvero di un totalitarismo neocapitalista cui presto lo stesso Pasolini assegnerà i nomi di mutazione antropologica, omologazione e, insomma, Universo Orrendo:

Arpino mi dice che lo sport è lo specchio di una società: come tale rispecchia una realtà, che va accettata, ma io, sia pure con tutta la dolcezza del mio carattere, sono un apocalittico, caro Arpino!

Quando esce per Einaudi, nell’ottobre del 1977 e nel frangente di storia italiana che va sotto la minaccio sa griffe degli anni di piombo, sembra che Arpino abbia recepito in silenzio l’anatema di Pasolini, metabolizzandolo nei modi di una duplice sfida, a se stesso in quanto scrittore e al mondo che costituisce, oramai da un decennio, l’orizzonte quotidiano della sua esistenza. Non gli interessa affatto calcolare la coerenza ideologica del rifiuto da parte di chi si definisce apocalittico, chiamandosene fuori con sdegno e furore; gli interessa, semmai, chiedere conto del proprio vissuto a chi di quel mondo è testimone e nello stesso tempo complice, e cioè a sé medesimo.

La mozione di Arpino, il suo banco di prova, non è di natura politica ma, ancora una volta, esistenziale ed etica. Dunque sceglie per il suo romanzo più esposto e arrischiato un portavoce che simula scopertamente la prima persona, «Arp», e gli aggiunge un deuteragonista, «Bibì», che corrisponde ufficialmente a Bruno Bernardi, suo collega al giornale e, dirà con iperbole affettuosa, «un fratello giovane, un compagno di diecimila viaggi, tremila partite, milioni di discussioni». I due personaggi convivono e agiscono in termini opposti e complementari, la loro funzionalità è dialogica secondo lo schema che istituisce il romanzo moderno, discriminando tra il principio di realtà (l’ambito domestico di Sancho) e l’impulso alla fuga, tra follia e disincanto, che è l’eterno dominio di Chisciotte. Di un simile archetipo la figura di Arp è l’ultima occorrenza e un consanguineo più riconoscibile, nella fisionomia biografica, dei personaggi che già abitavano il presente, sempre sotto scacco, in (1959), (1962), (1966), e infine (1975), individui messi al margine dal ciclo del progresso economico, segnati da profonde e inconfessabili ferite, vulnerati da pubblica ignominia e oblio: sono uomini e donne che la società affluen te non gradisce e nemmeno prevede, perciò tende a rimuoverli come elementi di disturbo, anacronismi imbarazzanti o rottami archeologici. Costoro sono infatti portatori di una verità individuale, non manipolabile né istituzionalizzabile, perlopiù vissuta e pagata in un silenzio glaciale, comunque refrattaria alle magnifiche sorti della storia collettiva. Quanto a ciò, nel suo lucido delirio al cospetto di Bibì, nel supremo rigetto di un mondo che pure ha fatto di lui una star del giornalismo, Arp non è affatto un’eccezione, così come non è semplicemente una parentesi (quasi fosse solo un romanzo molto singolare sul gioco del calcio, caso più unico che raro in Italia), ma un esito a lungo propiziato e un punto fermo nella narrativa di Giovanni Arpino.

Fondale del romanzo sono i verdi smalti della Bassa Baviera e del Baden-Württemberg, dove si giocano, nel giugno del 1974, i mondiali di calcio. Due ne sono gli epicentri: il Neckarstadion di Stoccarda, a un passo dal fiume che fu di Hegel e dei poeti romantici, e il ritiro di Ludwigsburg che ospita la nazionale italiana, un castello sperduto nei boschi in cui bruciò, nell’orgia wagneriana, il sogno decadente di Ludwig, Luigi II di Baviera. Quasi per premonizione, il solstizio d’estate corrisponde a un primo sospetto d’autunno: c’è nebbia, un pallido sole squarcia di tanto in tanto l’aria rabbrividita, fa freddo. I discorsi di Arp e Bibì (in albergo, in margine ai campi di allenamento o in tribuna stampa) assomigliano ai brechtiani dialoghi di profughi. I due personaggi si interrogano sul loro essere lì, impotenti e inessenziali, mentre tutto sembra presagire la disfatta, coi colori di un’estate andata a male, la mestizia dei luoghi, la scadente qualità del cibo, la presenza struggente e persino patetica degli immigrati italiani che assediano il ritiro degli azzurri.

Qui sinistre allegorie invadono l’immaginario di Arp manifestandosi sotto forma di gravidi insetti, mosconi molli e fetidi, ragni avviluppati in se stessi, o nella presenza di un cane pastore, animale sofferente e interlocutore fatalmente muto, cui egli si rivolge per confessare quanto teme di dover riferire a se stesso. I campioni del calcio, o presunti tali, sono visti da lontano nelle loro goffe movenze da acquario, pari a lemuri, torpidi ectoplasmi, nonostante la metafisica del tifo e un’epica d’accatto, su giornali e tv, li vorrebbe trasformati in eroi: il Bomber (Luigi Riva), il Golden (Gianni Rivera), Baffo (Sandro Mazzola), Petruzzu (Pietro Anastasi) e l’ineffabile Giorgione (Giorgio Chinaglia).

In realtà i campioni sono vecchi e logori, ipotecati da un sistema che sta andando in folle e non risponde più a niente che non sia la sua stessa riproduzione in termini economici e mediatici. Come fossero divinità decadute, negli atleti la miseria del gioco corrisponde alla gratuità, e spesso alla tracotanza, del comportamento. E infatti sono i responsabili e insieme gli attori grotteschi di una sconfitta etica prima che estetica, con rarissime eccezioni: Luigi Riva, chiuso in un silenzio impenetrabile, Giacinto Facchetti, il capitano, nella cui Arp vede i segni di un’antica civiltà sportiva e il crisma di una disciplina superiore, così come il portiere Dino Zoff (non a caso San Dino, per lui) nella cui serietà si individua un rifiuto primordiale dell’ipocrisia e della retorica che infestano, da sempre, la storia del paese. Diversi anni dopo, tornando a celebrare lo sport per un’ultima volta, Arpino infatti ignorerà i grandi nomi del football e sceglierà piuttosto il simbolo di una cultura rimasta popolare, il leggendario Augusto Manzo, campione eponimo nel suo Piemonte del gioco del pallone elastico:

Incarnò tutto questo sapere muscolare e psichico. [...] Poteva diventare centromediano della Juventus, tanto tempo fa, ma per fedeltà al destino, alla terra, alla famiglia, accettò due mucche contrattuali e scelse quei centottanta grammi di pallone elastico. [...] Di un Piemonte sobrio e severo in un’Italia povera e segreta malgrado la cartapesta ufficiale, Augusto Manzo è stato il testimone sportivo e silenzioso.

La nazionale italiana di calcio (replica senile di quella piazzatasi al secondo posto nei mondiali messicani del 1970, dietro al Brasile di Pelé ma dopo il celeberrimo 4 a 3 inflitto alla Germania Ovest) viene eliminata al primo turno: reduce da una stentata vittoria con Haiti, nientemeno, e da un gramo pareggio con l’Argentina, il 23 giugno è affondata dalla Polonia al Neckarstadion. È la riprova di un malessere che nel dialogo dei profughi Arp e Bibì si era venuto prospettando con l’evidenza di un fenomeno psicofisico, nella nausea da calcio e nel fastidio via via divenuto rancore e insofferenza per chi di calcio parla e scrive esaltandolo a vanvera e infine si rifiuta di vederlo per quello che in effetti è: la parodia di un gioco che non arriva a essere uno sport, un trip di massa, triste succedaneo di un’identità collettiva, la derisoria rappresentazione di un paese senza più memoria né destino. Cioè un Paese Mancato, dirà lo storico Guido Crainz molti anni dopo.

Fermo nel suo scranno in tribuna stampa, l’impermeabile dal bavero rialzato, la sigaretta con la cenere pericolante, Arp somiglia a Robert Mitchum o allo scrittore più fraterno, Norman Mailer, che infatti siederà vicino a lui nell’ottobre successivo, allo stadio di Kinshasa, la notte del combattimento tra Foreman e Muhammad Ali. Livido, costernato senza essere affatto sorpreso, per ora Arp ha intorno a sé solo l’arnia ronzante dei colleghi: da una parte le Jene, quanti alimentano il mito del calcio nel cinismo e nel suo sistematico dileggio, dall’altra le Belle Gioie, cioè gli ipocriti e i costruttori di alibi, altrettanto necessari alla garanzia del consenso o comunque alla manutenzione del sistema. (Appena a pochi metri, è presente l’unico che Arp abbia amato e riconosciuto suo maestro di scritture sportive, il «Grangiuàn», strepitante e ieratico, nella cui silhouette si riconosce facilmente Gianni Brera: però i messaggi che si lanciano, le battute mordaci, lasciano già intendere il malinteso che prelude a una drammatica risoluzione del rapporto, quando Arp accuserà di «stalinismo critico» colui che lo aveva definito il suo «premio Nobel privato».)

Oltre al picaro Bibì, appena due figure sopravvivono al tramonto tedesco, due superstiti costretti al ruolo tanto di interlocutori clandestini quanto di necessari mediatori tra la menzogna del calcio e la verità della vita, o viceversa:...



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