E-Book, Italienisch, 161 Seiten
Reihe: Nichel
Argentina / Tosco Dall'inferno
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-314-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Due reportage letterari
E-Book, Italienisch, 161 Seiten
Reihe: Nichel
ISBN: 978-88-3389-314-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
È notte. Diluvia. Un uomo cerca un operaio che lo possa affiancare nel suo primo turno di lavoro in acciaieria. È appena accaduto un incidente mortale e i dipendenti sono in rivolta. L'uomo comincia a girovagare all'interno di una delle fabbriche siderurgiche più grandi d'Europa smarrendosi come in un sottosuolo tra esplosioni, altiforni, cokerie, laminatoi a caldo e a freddo. A molti chilometri di distanza, un altro uomo è sfrattato dalla sua casa, a seguito del crollo di un ponte. L'aria sa ancora di calcestruzzo. L'uomo ha paura e la sua memoria è come questa città fantasma che attraversa, un quartiere deserto e senza ricovero, senza neppure la scommessa di un porto, in attesa che la vita riprenda e torni l'alba. In questi due racconti lunghi, Cosimo Argentina e Orso Tosco tentano di dare forma e ubicazione a quell'inferno contemporaneo di cui il ventre dell'Ilva e le macerie del ponte Morandi rappresentano altri due confini. Uno a Taranto e l'altro a Genova: due città sul mare, ognuna a un capo diverso della penisola. Il loro è un reportage visionario e insieme drammaticamente realista. Ci ricorda, come ha scritto Italo Calvino, che ci sono soltanto due modi per non soffrire dell'inferno dei viventi, quello che abitiamo tutti i giorni: accettarlo e «diventarne parte fino al punto di non vederlo più» oppure «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
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«Ehi, capo, nemmanco il badge sai passare? Mena mè! Nà... giralo. Lo devi girare!»
Il corridoio d’accesso è queste transenne scrostate.
In fondo c’è una gettata di cemento armato. Muovo qualche passo all’indecisa.
«Dove vai, ’mbà? Agli spogliatoi del dieci. Del dieci! Forza bello, che stanotte è già alla come dio vuole!»
Butto un occhio al buio, là, in fondo, oltre il caseggiato. Scruto a destra e a sinistra, mi volto, guardo il casellante, mi rigiro, prendo la strada per la gettata, inciampo a una barra, mi volto di nuovo.
Ci sono lampeggianti gialli e lampeggianti azzurri a clonazione. Sotto un cielo cicatrizzato da monconi in fiamme mi trascino il borsone lordato da questa pioggerella mescolata alla cenere. Quattro tir sono fermi davanti al bilico e un bilicista sta segnando qualcosa su un pezzo di carta bloccato da un fermaglio a una tavoletta di compensato. La lingua di fuori, il bilicista, scarabocchia, cancella, ricalca. La carta si sta bagnando e l’inchiostro sbava.
«Quedda zoccole!»
Manutentori in catarifrangenti mi passano accanto dandomi una spallata. Sbatto contro una transenna e quella crolla a terra.
«E statti attento!»
Sollevo le braccia. Che io manco li ho visti. Solo figure in fuga da qualche parte verso una porzione di buio nemmeno scalfito dagli alogeni solidali a un pannello zincato.
Una porta di metallo dipinto di verde. C’è scritto un 10 bianco fatt’a spruzzo con lo stencil.
Due addetti alle paiole mi guardano di traverso e si arrotolano una sigaretta sott’all’acqua che adesso non è più pioggerella, checché, ora viene giù a cristi e madonne e intorno ai lampioni gialli puoi vedere coniche cataratte sempre più fitte. Gli operai leccano la trasversale degli spini. C’hanno la scritta della ditta sulle tute, gli addetti.
«Dov’è che devi andare?»
«Non so! Sono per l’affiancamento... dovrei presentarmi al decapaggio!»
«Ah, sei uno dell’acido!»
«Per caso sai dove dovrei andare?»
«Niente so. Datti da fare, bello!»
Piove. Un Dio incontinente. Quelli guardano in aria e bestemmiano. Dicono che non basta la polvere e gli schizzi incandescenti, pure la pioggia. Scende di lato, si sposta nel vento, non sai mai come ti prende, la pioggia. Perle minime, ma una appress’all’altra. Tante piccole catene che si sfasciano a terra.
«Datti da fare, ’mbà!»
Apro la porta. Dentro ci sono armadietti di metallo scorticato alla base e lungo le maniglie. C’è un’aria tossica piena di vapori come in una sauna tarata male. Quattro lampadine gialle incamiciate in grate alla ruggine danno sì e no la luce per un requiem.
Gente indistinta nel fondo della stanza. Intruppati in un angolo inaccessibile, spremuti, olive fresche fresche schiacciate nel vimini. Ce n’è tanta, di puzza. Sono le calze. Pallottole di cotone a spugna coi righini rossi e blu e la pianta marrone.
Volano maglie di lana ed elmetti gialli e si sente l’acido del piscio dalle latrine. La gente è compatta, va avanti e indietro, un tutt’uno solidale a qualcosa di invisibile. Rumori, tanti. E alcuni rantoli.
C’è un’uscita posteriore opposta rispetto a quella che ho usato io. Una porta di amianto sderenata con un battente ad anello. Entrano ed escono imprecando.
«’U cicate ha entrato le placche di raffreddamento? O se le porta a casa?»
Risate di denti guasti. Bocche spaiate. Labbra tumefatte e viola. La gente si muove, mostra le gengive e ci sono spintoni, spallate e qualcuno ride facendo nà, vedi ce pizza piccinne... si’ nu curciule!
C’è un uomo nudo che viene fuori dalla zona docce. Dalle docce provengono dei rumori, ansiti, dei respiri ora forti e profondi ora più secchi e rapidi. Gli armadietti sbattono e c’è chi prende a calci uno spigolo e quello si deforma. A ogni sdlengata c’è questo controcanto di oeh, avaste mo! Una schiena contro un armadietto, quello ondeggia e un peto si perde dentro gambe di calzoni da lavoro, morendo al polpaccio.
Si insultano e se la ridono e insulti e risate si sovrappongono, accartocciano, sanno di rituale quotidiano, un turno che smonta e uno che monta a cavallo della tigre.
«Oeh! E tu ci cazz’ si’?»
«Sono qui per l’affiancamento. Mi hanno detto di presentarmi al decapaggio!»
Qualcuno ingoia saliva e fa riecheggiare un rutto.
«Zucchere!»
È mistificazione, è il grottesco della miseria.
L’uomo nudo viene spinto contro un armadietto e c’è un chiattone con le mani unte di olio lubrificante che gli fa una calata, gli palpa senza ironia il culo e ride. Quello dice mè, quando te la devi finire?
Il panzone continua a ridere ed è la risata di un uomo senza speranza.
«A mio fratello non l’hanno preso... E a ’sti cazz’ di raccomandati nà, rapido rapido l’assunzione! L’ muerte!»
«Quelli assumono a ci cazz’ volene loro!»
Se la dichiarano sulle raccomandazioni. Sulle casse di pesce portate ai gerenti. Scuciono insulti fa’ che se li tolgono d’addosso. Irriverenti, masticano e fumano e bevono da bottiglie di Raffo mezze vuote. Uno si stringe le cartilagini del naso e scaraffa roba bella densa. Mi danno in testa a occhiate rancorose e muovono le labbra come pesci al boccheggio.
«’A crisi!»
Dalla doccia un urlo di dolore. Gli altri ridono, si muovono in blocco, qualcuno butta un’occhiata e torna indietro.
«’U ste face nueve nueve!»
«Chiamate all’antincendio!»
Una maglia di lana mi piomba addosso. Un uomo simile a un ragno decapitato mi domanda dove sono gli indumenti da lavoro.
Sì, ho qualcosa alla bisogna.
«Mi hanno detto solo di presentarmi al turno di notte e che qui avrei trovato l’affiancamento!»
«E chi cazzo te lo deve fare l’affiancamento?»
«Non lo so!»
«Ninde se’!»
Due a torso nudo bevono caffè in un angolo. Se ne stanno in piedi con la parte alta della tuta arancione appesa come una coda. Mi guardano e... devo stargli in odio così, in battuta, a sensazione. Mi guardano e sorseggiano dai bicchierini di carta e si scambiano frasi sempre guardandomi. Fermi, quasi immobili. Di tre quarti. Bronzi derisi su piantane semoventi. Mi guardano fa’ che gli ho fottuto un terzo della paga. Stanno fumati. Tengono le sigarette colle dita a pinza. Chiudono un occhio a ogni boccata e mi segnano col mento e a rischio zero sono certo che mi trascinerebbero nelle docce.
Uno scarpone antinfortunio decolla da uno degli angoli e mi manca di qualche millimetro.
Risate. Scatarrate e rinculi bronchiali alla padre perché mi hai abbandonato?
Gli anziani stanno più alla rassegnata. Geriatria cannibalizzata dallo statuto dei lavoratori, ostaggi del pezzo di pane. Quelli più giovani, non ancora in grado di governare la rabbia sociale, scalciano. Rancore a gorgo sull’orgoglio di chi s’è tirato fuori da una barca, un vicolo alla uomo da muro o dal sussidio che nemmanc’arriva più.
«Qui siamo quasi tutti ricottari... siamo addetti alla ricottura e allo scarto metalli fusi... che cazzo ci fai qua? Voi dell’acido non dovete stare qua!»
«Stuè, se gli hanno detto di venire qua vuol dire che è qua che deve venire!»
«Stuè lo vai dicendo a mamete!»
Un maschio atroce colle guance verdi prende per la gola uno sui cinquanta. Quello si svuota delle ossa senza mollare la sigaretta al baffo. Un tarchiato colle braccia coperte di monconi di tatuaggi si mette in mezzo e gli dice che mica possono litigare per l’ultimo magghiato arrivato qua.
«Non ve la finite?»
Dalla porta secondaria entrano due manutentori colla tuta inzuppata di pioggia.
«Uno schizzo dimmerda! Pasquale... uno schizzo di bramma negli occhi! Mo se lo stanno portando al grandi ustionati, ma se gli vedevate la faccia... madonna del carmine! Due posacenere al posto degli occhi!»
Si tolgono i caschi, tengono pioggia in faccia, ma da come la vedo io potrebbero benissimo essere lacrime.
«L’ muerte lore! La siviera ada esse manovrata a tre palmi!»
«S’era incastrata una delle bilette, Antò! Non andava né avanti né indietro... ’u uagnone è dovuto andare a smarcare i rulli con un tubolare. Mica è colpa soie!»
«E i sindacati?»
«S’ stonn’a organizzane».
«È sempre tardi!»
Dice che gli ha scavato gli occhi, il metallo incandescente. Dice che se n’è andato ai carboni, Pasquale. Sempre la stessa perversa canzone, un motivetto, un impasto di marce funebri e trallallero trallallà... gli occhi al puzzo di pesce. Grigliata mista da restituire alla aspirante vedova.
C’è rassegnazione, nelle facce. Si incartano su un ricordo, un pensiero sottobanco, alla buona, alla meglio a lui che ammè!
«’A sicurezze! Lo voglio ancora vedere il fattapposta della sicurezza!»
Sirene e movimenti di ambulanze. Fuori si urla nella pioggia e dentro le docce si urla di dolore, forse.
Cominciano a muoversi alla agitata.
«E tu levati dai coglioni! Non vedi che se resti fermo dai fastidio?»
Mi sposto di lato. In una mano ho la borsa e nell’altra il foglio di assunzione. C’ho il segno dei manici nel palmo sinistro e ogni tanto faccio fare un piccolo salto alla borsa per sentirmi ancora la mano. Gli armadietti sbattono a ripetizione.
«Cu ciè ca fà l’affiancamento?»
«Non lo so!»
«Non lo sa. Non sa un cazzo, ’sto qua. Ehi, Emanuele, m’hai portato quel...