E-Book, Italienisch, 197 Seiten
Argentina Per sempre carnivori
1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-7521-494-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 197 Seiten
ISBN: 978-88-7521-494-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Una testa mozzata, tre folli tragicomici insegnanti precari in un istituto tecnico che cade a pezzi, ragazzine pericolose per gli altri e per se stesse e padri in lotta con il passato. Sono questi gli ingredienti di una storia sulfurea fatta di comicità nera, notti brave e giovani professori che al mattino si scuotono di dosso le imprese delle ore precedenti e impugnano il registro tra studenti consapevoli che la scuola non potrà condurli verso nessun mondo migliore. Leone Polonia, io narrante del romanzo, è uno di questi tre docenti. Bevitore incallito, lingua tagliente, alle spalle una famiglia rasa al suolo e davanti la prossima ragazza da portare al letto. Lo sfondo è la provincia di Taranto, vera terra di confine fatta di piccoli imprenditori a corto di moralità e grottesca malavita locale. Tutto procede identico a se stesso, fino a quando Leone commette un errore che non gli sarà perdonato. Aspro, lucido, liberatorio, Per sempre carnivori è uno spaccato della provincia più nascosta, il romanzo sulla scuola italiana che non emerge mai dalle cronache ufficiali, e che solo la letteratura riesce a scoperchiare.
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Siamo più ariani noi che Erik il vichingo. E allora?
A Campomarino anche d’inverno restava aperto un chiosco in canne e muratura che vendeva birra e faceva dei panini coi pomodori secchi sott’olio. D’inverno il vento gli strappava le canne, all’esercizio, ma la muratura resisteva e allora c’andavo da solo a bere qualcosa e a scambiare due parole con l’afro che gestiva il fatt’apposta.
Mi faceva assaggiare sempre una birra nuova, zio Tom: la birra del minatore, quella gran riserva di Natale, Plefe Weizen, Diamante... roba imbevibile. Lo zio veniva da Tirana. Era l’unico afro albanese che forse esisteva sulla faccia della terra ed era bello starsene lì e smozzicare solo una parola ogni tanto e per il resto guardare in lontananza le barche alla darsena che ondeggiavano sotto i colpi furenti del dio Ventoro mentre i cavicchi e i bozzelli facevano un gran baccano e i cani camminavano in diagonale a caccia di gatti e topi.
«Poi arriva l’estate e qui non ci puoi mettere piede!», diceva lo zio.
Che cosa volevo e cosa cercavo? Non lo so. Nemmeno adesso potrei rispondere a ’ste domande. Ho sempre invidiato quelli che sanno ciò che vogliono. Come cazzo fanno? Cos’hanno dentro? Io me ne stavo con lo zio un paio d’ore, poi...
Rientravo verso casa e davo una sbirciata alla domus di Lia e se le luci erano tutte accese voleva dire che i genitori si stavano lanciando i coltelli sulla cotenna. Mio padre a quel punto era ubriaco e rantolava in un angolo cercando di ripararsi dagli sguardi accusatori dei fantasmi che non lo lasciavano mai in pace. Io manco lo sfioravo. Me n’andavo a letto e mi tappavo le orecchie e lui lì, nel suo vomito marrone scuro di pizza con le sarde, a dichiararsela coi demoni. Io lontano da lui e lui lontano da me, ma ariano, perdio, più ariano di Erik il rosso e non per questo meno fottuto di una ciurma di vichinghi alla deriva su una nave con l’allungata prua apotropaica rivolta verso nord.
Nessuna fortuna se ti ritrovi in fondo a una scarpata, su una spiaggia di sassi e sabbia, con la schiena paralizzata e una testa mozzata a un palmo da te e quella testa è di un tuo compagno di sventura mentre l’altro compare è lì accanto, sderenato nel corpo e nello spirito. Nessuna fortuna se tuo padre non ci sta più con la testa e tua madre scorrazza per i Campi Elisi. Nessuna fortuna, compari. Solo grassa malasorte che in un modo o nell’altro m’ero guadagnato.
Mio padre s’innervosiva per un nonnulla. Sedeva a tavola sgranocchiando bestemmie e Gesucristo di qua e la Madonna di là. Se per caso lo urtavo con un piatto mentre cercavo di arrivare al lavabo s’infuriava e urlava che ero una testa di cazzo e che lo mandavo all’esasperazione. Nessuna fortuna, con lui.
Ero un debosciato che s’abbinava a debosciati e la fine era già scritta ma neanche lui sarebbe arrivato a immaginarmi con una testa non mia a filotto e un formicolio nella spina dorsale.
Nessuna fortuna se ti piacciono la bruna biblica e la bicolore, ma raccogli solo l’assedio dell’albatro che ogni giorno trovava il modo per inquinarmi l’anima con mille ti devo parlare. Di che? Dammi cinque minuti e ti spiego. Poi quando ci ritrovavamo in macchina oppure in un bar con l’arredo ossidato, lì, a Ginosa, cominciava a dire che aveva sbagliato ma che tutto era ricomponibile e che aveva capito e che gli errori non si sarebbero ripetuti e che avrebbe rigato dritto. Insomma riproviamoci, sbuliniamoci di nuovo e vediamo che succede. E io ogni volta le ricordavo le frasi davanti agli scorpioni rosa e quelli neri, ma lei non ne voleva sentir parlare, di quella masseria persa nella macchia mediterranea.
In macchina, al ritorno dalla Mezzamurgia, c’era sempre quest’aria dimessa e la voglia di esser scaricati nei rispettivi cantoni. Il dentuso tentava attacchi frontali a Concetta.
«Che fai oggi pomeriggio?»
«Correggo i compiti».
«E stasera?»
«Esco col mio ragazzo».
Avvilito e scompaginato, il dentuso allora ci chiedeva di uscire e noi già ci si predisponeva a stare a sentire le sue litanie d’amor non corrisposto. Mako lo prendeva in giro.
«Ma rasckati a quedda sottospecie di fidanzata che c’hai!»
«Che c’entra? Concetta è quello che ho sempre sognato, in un certo senso. Lei e Rita si completano e mi completano».
Mako gli afferra il bavero della giacchetta e lo scuote fa’ che gli deve far uscire di sacca i denari trafugati durante una partita di poker truccata. Io cerco di metter pace tra il grosso predatore e Jean-Luc Godard perché in fondo mi fanno pena entrambi. Tiro fuori una barzelletta così Mako mi gonfia di improperi e lascia in pace il dentuso innamorato.
«Non attacca, Polò... lui lo deve capire che è un pisciaturo e se fosse diverso lascerebbe quella cessa e poi quello che viene viene».
Scarico un pugno sul tavolo e Mako si zittisce. Il dentuso è amareggiato, ma mi guarda come a dire ehi, socio, che cazzo c’hai dentro? In realtà però non dice nulla. Spingo il tavolo e me ne vado verso la ringhiera del lungomare accendendomi una sigaretta mentre i due si guardano alluvionati.
«Ma è scemo?», sento dire a Mako.
«E lascialo stare!», gli risponde il dentuso.
Butto un occhio alle isole Cheradi e a un paio di petroliere alla rada scegliendo una stella lassù in cielo, una che possa fare al caso mio. Una fottuta stella che mi stia a sentire e a capire davanti a questo mondo in cui mi sento un estraneo. Poi rientro nel branco.
«Si può sapere che cazzo c’hai?»
«E lascialo in pace. Avrà i cazzi suoi».
Paola passava i pomeriggi in parrocchia, alla Sant’Anna. La Sant’Anna era una chiesetta tirata su da un prete manager che trivellava giovani fedeli. La parrocchia si trovava nella periferia orientale di Taranto quasi a ridosso dello stadio di calcio. Oltre alla cappella e agli alloggi del don c’erano un campo da calcio a sette in sabbia e un pub dove le parrocchiane più giovani e dotate servivano ai tavoli e accalappiavano i clienti-futuri-adepti. Paola era la stella del locale. Abbandonai senza rimpianti Bruno e mi precipitai al pub clericale fino a che la testa d’acciaio mangiò la foglia e il don anche.
«Perché non vieni ai nostri incontri di catechesi?»
«No, grazie... mi basta una birra ogni tanto».
Bollato. Bollato io, il dentuso che qualche volta mi accompagnava, mentre Mako per principio non ci mise mai piede. Lui, l’isaurico del golfo di Taranto, aveva una dignità laica da difendere e non poteva sputtanarsi se qualcuno l’avesse visto mentre beveva la lacrima christi.
Nessuna fortuna, dunque, anche perché la fortuna aiuta gli audaci e ce la si deve conquistare e meritare e noi a quel tempo ci trascinavamo senza senso qua e là giusto per aspettare l’avvicendarsi dei giorni.
Ma ci pensò Mako a movimentare la scena mescendo dosi di torbido amore in un calderone che dell’amore non aveva neanche le fattezze.
E anche lì, chiedere alla testa di Mako per credere, nessuna fortuna.
«Il tuo amico... quello grosso... Gianna...»
Lia aveva detto-non-detto e siccome il mare di maggio era un magnetico piatto saggiato da un oceanico discobolo a me le parole non erano arrivate. Non le avevo ritenute sensate. Non del tutto, insomma. Era comunque sensato starsene seduti in spiaggia col ricordo della carcassa del suo cane e con la risacca a disegnare sequenze elettrocardiache sulla battigia. Il primo caldo, il finale scolastico, il mio primo affondo a Paola erano circostanze che s’addensavano le une sulle altre a un ritmo cabalistico.
Paola l’avevo stretta all’angolo un pomeriggio che m’era venuta a trovare. Mio padre era in giro a menarselo contro i muri di qualche asilo nido e io e la Maddalena c’eravamo ritrovati soli nella sala da pranzo irrorata di disinfettante antizanzare.
«È mio padre che cerca di ammazzare le larve».
«Ma ce ne sono così tante?»
«Io non ne ho vista manco una, ma...» Era seguita una smorfia scazzata delle mie labbra.
Lei aveva sorriso e la pelle bruna aveva lasciato un varco a quei denti piccoli e bianchi e allora l’avevo baciata e lei manco indietro s’era fatta e anzi m’aveva spinto il ginocchio tra le gambe e poi... e poi dietro al mio collo s’erano affollate le immagini di capa d’acciaio, del don, del pub clericale e delle trenta sorelle che s’abbinavano a lei.
«No, Polonia, è meglio di no...»
«Perché?» Affiorava una patetica disperazione dal mio sistema linfatico imbevuto di Mar Morto.
«È meglio... non avrebbe senso... staremmo qui e poi?»
D’accordo, puttana troia, proièttati tra due ere glaciali e allora sì che non trovi nessun senso a quello che stiamo facendo. Un mammifero che succhia la lingua a un altro mammifero ed entrambi si strofinano le trippe uno contro l’altro. Che senso vuoi dargli? Facciamolo e basta e poi trasciniamoci fuori per ripiombare nel nostro dolore quotidiano. Spaliamoci i trucioli dalla testa e aspettiamo un altro giorno alla via col vento, Paola...
Lei m’aveva accarezzato come si fa con un demente che non capisce l’abc dell’esistenza, ma che fa tanta tenerezza.
«Polonia... tu le donne le attrai e le metti in fuga al tempo stesso».
Tu le attrai e le metti in fuga al tempo stesso... che razza di frase era mai questa? Ehi, bella, sono più ariano io che Erik il rosso, lo sai questo?
Le offrii da bere un tè al limone, ma i limoni erano coperti di muffa e allora tè...