Anonimo / Valera | Memorie di Jules Bonnot | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 98 Seiten

Anonimo / Valera Memorie di Jules Bonnot


1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5593-064-8
Verlag: Paperleaves
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

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ISBN: 979-12-5593-064-8
Verlag: Paperleaves
Format: EPUB
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Devo io rimpiangere quello che ho fatto? Sì, forse, ma se dovessi continuare, malgrado i miei rimpianti, continuerei. Io ho il diritto di vivere, e poiché la vostra società imbecille e criminale pretende proibirmela, ebbene, tanto peggio per lei! Vada per la Browning! Tanto peggio per voi tutti. Io sono risoluto e vi aspetto. Jules Bonnot, fu il capo della famigerata Banda Bonnot che tra il 1911 e il '12 terrorizzò la Francia e il Belgio con una serie di audaci rapine. Queste memorie, scritte da un anonimo copain, delineano un vivido ritratto di Jules e della sua banda ricostruendone la storia dalla genesi negli ambienti anarchici parigini dei primi del '900 fino al tragico epilogo.

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II.


Il gruppo anarchico non aveva sede fissa. Non si sapeva della radunata che all’ultimo momento e l’ora e il luogo venivano annunciati dalla bocca dell’uno all’orecchio dell’altro. La prima riunione alla quale ho assistito era stata convocata da Giulio Bonnot, il quale voleva distruggere un canard (giornale) che lo aveva oltraggiato denunciandolo come autore di un grosso furto fatto alla Duval, l’iniziatore francese del furto come guerra alla società. Egli non era un criminale. Espropriava coloro che lo avevano espropriato.

Bonnot non voleva essere criminale. I camaros lo distolsero dicendogli che la distruzione di un canard avrebbe fatto strepitare tutta la stampa e avrebbe sollevato tutti i parrigots (parigini) della penna pubblica, come egli aveva battezzati i redattori dei quotidiani e tutte le vaches (letteralmente vacche; figurativamente agenti della polizia). I tipi della prima volta non erano in armonia con le teorie lombrosiane, il bottegaio del dizionario scientifico, il denigratore delle moltitudini. Più di una volta mi è venuto il ticchio di andare a Torino a caricarmelo sulle spalle per buttarlo all’égout come i vili della reazione hanno fatto del grande Marat. La miseria deturpa. Rende paonazzi, scarni. Sfigura. Fa dei solchi alle guance. Gli occhi rimpiccioliscono e sembra abbiano uno sguardo vitreo. Le labbra assottigliano e scolorano. Le schiene si incurvano. Le orecchie si allungano e diventano trasparenti. Gli abiti completano il disordine fisico.

Biancheria sporca, cappelli disorlati e chiazzati di sudore, giacche sdrucite e scandellate di untume, calzoni accorciati dagli strappi, dall’uso e dall’abuso, scarpe deformate rotte scalcagnate. Uditi in coro a cantare la canzone del Père Duchêne la gente estranea avrebbe avuto gli svenimenti. Le facce al canto assumevano un’aria veramente feroce e le voci parevano riproducessero il tumulto dei loro cervelli. Le teste sulle spalle rattrappite ingrossavano e si muovevano come minacce. Vedevo volti piatti, lividi, mostruosi; capelli che si agitavano come serpentelli furiosi; bocche che si spalancavano e si alzavano come per lasciarmi precipitare con lo sguardo, nelle gole ora nere come il carbone e ora rosse come la brace. Ascoltavo parole terribili. Bonnot non ne aveva mai pronunciate di così antimagnanime. Le anime degli assembrati erano altre anime: anime che non domandavano che di saziarsi nel furto e dissetarsi nel sangue; anime stanche di dolori e di patimenti.

Alla prima riunione libertaria del club rosso c’erano quasi tutti i tipi notori per la loro partecipazione ai cambriolages o celebri per la loro corsa alla morte. Volti terrosi, capelli assecchiti al sole, occhi indiavolati dalla contemplazione nei bisogni atroci. Bonnot, Garnier, Valet, Dieudonné, Carrouy, Raimondo La Scienza, Rambaut, Carty, Eugenio Dubost, con l’amante Maria Besse, passeggiavano concitati. Alcuni non avevano che bagou, chiacchiere. Non c’era posto che per l’azione. C’erano molte donne sparse per la rimessa. Gauzy, Cardi, Collin e dieci o dodici ragazze senza nome o con dei soprannomi che si riferivano alla loro bellezza o al colore della loro pelle o a qualche episodio della loro esistenza. Non ho mai potuto dire se l’anarchia fosse in loro. Una parola le agitava. Le faceva correre a colui che parlava con le trepidazioni e gli impeti delle strafottenti, o passare tra i gruppi con le carni sussultate dalla collera e con i gesti che agitavano l’aria.

Le loro acconciature alla vergine, bipartite al centro cranico, legate dal nastro azzurro o rosso sulla nuca, davano risalto ai colli bianchi e rosei. La trascuratezza degli abiti era in armonia con la loro petulanza bonaria, con la loro gioiosità, con la loro spensieratezza. Nessuna preoccupazione né per l’oggi né per il domani. L’assenza degli agi e del danaro dei loro ambienti non le spaventava. Erano abituate alle avventure: quello che loro capitava capitava. Fra gli uomini e fra le donne il cameratismo era alto. Gli indumenti, le cibarie, il benessere di uno erano di tutti. Ciascuno poteva servirsene senza dire grazie. Se pioveva, per esempio, chi entrava con l’ombrello poteva uscirne senza. Tra noi le convenienze del mondo vecchio erano sconosciute. Il superfluo o il lusso personale circolava di mano in mano o di spalla in spalla senza compiacenze e senza rimpianti. Una sera brumosa di dicembre ho dovuto ospitare un copain ridotto alle privazioni. Il freddo era intensissimo. Gli ho dato il mio pastrano per coperta. Alla mattina si è alzato prima di me. Si è ravvolto nel mio “superfluo” e se n’è andato come un viaggiatore senza ritorno. Per ambientarsi nell’indifferenza per la proprietà degli altri bisogna entrare nel dominio delle negazioni. Allora i malintesi sociali scompaiono. Non c’è più litigio fra il mio e il tuo. Chi piglia, piglia, chi indossa, indossa.

Nelle giornate solenni, come quella della seduta iniziale della gente che stava per aprire la porta della storia, il proprietario della vecchia rimessa che non aveva cavalli parava le muraglie dei maggiori anarchici dell’azione. Bakunin era in alto come un filosofo, con i capelli lunghi e ondeggiati sul bavero e con la bella barba che gli allargava la faccia e il sorriso diffuso fin su in alto della fronte spaziosa. Fronte intellettuale. Dava l’idea che fosse un oceano di pensieri. Sotto di lui c’erano quelli che i copains chiamavano i suoi figli. Duval, Pini, Caserio, Ravachol, Henry, Vaillant, Palla. Erano oleografie. Sotto ciascuna si leggeva una parola. Sotto Palla, Germinal: sotto Duval, libero nell’umanità libera. Pini, prendi il bene dove lo trovi. Ravachol, coi baffi al vento e l’aria contenta sul viso duro dalla tinta plumbea, aveva la testa circonfusa delle ultime parole pronunciate in Corte d’assise.

— Si ha torto di scambiarci per dei criminali. Noi non siamo che i difensori degli oppressi.

Vaillant con la sua testa che aveva studiato chimica pareva proteso verso la camera dei deputati in atto di lanciare la sua cassetta di ferro bianco carica di chiodi.

— Voi non pensate agli infelici. Badate! Gli infelici pensano a voi.

Augusto Vaillant m’inteneriva tutte le volte che lo rivedevo in fotografia o in oleografia. La morte sul palco del boia trasforma il ghigliottinato. Ho assistito alla sua esecuzione e perdura in me la terribilità dell’avvenimento. Non posso scordarmela. Sulla piattaforma non eravamo più di duecento persone. Egli uscì dal portone della Roquette accompagnato dal carnefice e dai suoi aiutanti. Alto, accigliato, con la vendetta negli occhi che illuminava la tinta gialla del suo viso che aveva vissuto nei paesi caldi dell’America latina. Non aveva che trentadue anni e non c’era giovinezza sulla sua persona. Ossuto. Peli fitti che gli sfioravano le guance, baffi bruni pendenti sulla barba del mento, occhi piccoli e inquieti. Energia. Tutta la sua persona rivelava una volontà o una determinazione.

La data è del cinque febbraio 1894 alle sette antimeridiane. Non si sono impiegati che otto minuti. Fiero. È passato davanti a noi con la testa alta, voltandola solo per dire:

— Morte alla società borghese!

Nessuno di noi ha fiatato. Eravamo troppo compresi della tragedia che stava per compiersi. Per spiegare la mia presenza dirò che allora facevo i primi passi del reporter giudiziario. Mi parve che fosse passato un utopista. Un uomo che aveva creduto di poter guerreggiare contro la società armata di tutti gli strumenti della civiltà moderna con una semplice cassetta di ferro bianco carica di chiodi! Fece gli ultimi passi e si gettò sulla bascule da solo, si lasciò chiudere il collo nell’apparecchio e in un fiato cadde il coltello di Deibler a separargli la testa dal corpo. La testa è caduta nel paniere sotto l’impalcato spargendo due zaffate di sangue che lasciarono pillacchere rosse sui calzoni e sulle scarpe degli esecutori.

Sono stato sbattuto fuori violentemente dai ricordi funebri da una manata alla spalla. Era Bonnot che mi faceva sentire la sua forza muscolare. Egli era faceto. Aveva la facezia delle giornate di buon umore. Con la sua mano che stringeva quella dei copains si credeva che egli fosse a denari. Ci disilluse. Non c’era benessere nelle sue tasche. La sua giocondità era dei momenti di eccessiva bolletta. Da un po’ di tempo non gli riusciva un affare. Lo si vedeva. I suoi occhi avevano lampi di foscaggine. Domava se stesso. Aveva l’abitudine di respingere la collera che stava per scatenarlo facendo schioccare le dita tre volte. I libertari lo circondarono. Nessuno era capo, ma tutti pendevano dal suo labbro. C’era in tutti loro una stanchezza infinita. La quiete e la miseria li avevano prostrati. Le donne erano più stufe degli uomini. Scuotevano le vesti o buttavano indietro i capelli sciolti come per far sentire la loro impazienza. Carouy si stropicciava le mani come se avesse avuto in esse lo spasimo dell’orticaria. Giulio Bonnot che voleva conservarsi sereno alzava le braccia e diceva:

— Un po’ di pazienza.

— Pazienza, pazienza!

Per che cosa? Domani rispondeva Carouy, non sarà una giornata migliore delle altre. La Biondona pareva una bestia in gabbia; girava intorno a se stessa. La pazienza, diceva lei, era buona per gli imbecilli. Bisognava agire.

— Agire! E chi ve lo impedisce? aggiungeva Bonnot incrociando le braccia. Io? Io, no. Siamo anarchici del fatto. Libertà per tutti. Chi vuole, lavori.

— Chi ha più ingegno deve dare la spinta, diceva l’amante di Sementoff. Non occorre che tu sia il nostro capo. Occorre che tu sia la nostra guida.

Rimbaud assentiva.

— Tu sei il nostro grand’uomo.

— Cortigiano! gli rispondeva Giulio...



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