E-Book, Italienisch, 278 Seiten
Reihe: Minimum classics
Amendola Un'isola
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-311-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 278 Seiten
Reihe: Minimum classics
ISBN: 978-88-3389-311-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
GIORGIO AMENDOLA 1907-1980 antifascista, comunista e partigiano, fu uno dei grandi protagonisti della storia italiana del Novecento. Autore di molte pubblicazioni di carattere storiografico, nel 1974 vinse il premio Viareggio per la saggistica con il volume Lettere a Milano. Ricordi e documenti. Alla fine della sua vita scrisse due libri di memorie che ebbero molti lettori: Una scelta di vita e Un'isola, in cui raccontò, con un tono quasi da romanziere, il suo apprendistato politico e umano.
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Senza mai perdere la tenerezza
Profilo bio-bibliografico
Nel gennaio 1974 Oriana Fallaci intervista Giorgio Amendola per sei ore distribuite in tre incontri.1 Lui la accoglie alla scrivania del suo ufficio pieno di quadri d’autore, ma senza neppure un manifesto o un ritratto di Lenin e di Marx. Amendola aveva appena pubblicato un libro di ricordi e documenti del periodo tra il 1939 e il 1945, , che vincerà il Premio Viareggio per la saggistica proprio quell’anno. I due cominciano a parlare partendo dal fatto che Oriana Fallaci, leggendolo, non si era annoiata. Gravava infatti sui dirigenti del Partito comunista una reputazione d’essere tediosi, schivi fino al limite della reticenza, riluttanti alla confessione o all’apertura d’animo e sempre, in qualche modo, diffidenti verso l’esterno. Di avere, insomma, un’aria sempre «adirata, imbronciata, sospettosa», una riserva di ghiaccio, un rigore di preti. Pur ammettendo quell’eccesso di riserbo, Amendola rifiuta gli stereotipi: per lui non esiste un tipo esemplare di comunista, e per smentire la loro presunta freddezza fa l’elenco dei compagni morti d’infarto o per la rottura di un vaso sanguigno: Togliatti, Di Vittorio, Alicata, Romagnoli, Grieco, un elenco al quale si sarebbe dovuto aggiungere anche il nome di Berlinguer. Di Giuseppe Di Vittorio, in particolare, ne sottolinea l’immensa carica umana e le confessa di avere l’impressione, in vecchiaia, di somigliargli sempre di più.
Quello che interessa alla Fallaci è proprio questo: capire l’uomo, il personaggio, che considera uno dei politici più interessanti d’Italia. Per lei è comunque l’unico, in fondo, e non soltanto tra i comunisti, «che non si tappasse la bocca e non temesse di rispondere alle domande più insidiose».2 Il ritratto fisico che ne dà è netto, senza sfumature: il corpo alto e massiccio, imponente, il volto corrucciato e contadinesco, i capelli tagliati cortissimi, alla militare, il passo greve e autoritario, la fama di collerico. Un uomo duro e severo, vecchio stile. Eppure la sua amabilità la sorprende. Ha il sospetto che sia forzata, un modo per conquistare l’interlocutore, tradita in parte dal tono della voce, sempre «robusta e sferzante», e dai colpi di nocca che ogni tanto dà sul tavolo. Ma scopre presto che quella ruvidità è soltanto un attributo esteriore, e che la gentilezza che la contraddice è invece autentica. Nonostante Amendola abbia un temperamento di fondo passionale, la sua impulsività è spontanea e in nessuna circostanza prevaricante. Non smette mai d’essere «educato, civile», non c’è domanda che lo faccia inalberare o a cui sfugga con il silenzio o la diplomazia. A qualsiasi provocazione o insolenza, reagisce con «raziocinio tollerante». Non tratta con ironia o disprezzo o presunzione le questioni più scottanti e mostra di avere un’intelligenza non rigida, non frenata dal dogma e dall’ortodossia.
Tra loro si instaura un sentimento affettuoso di cordialità e una «strana intesa». In quei giorni, la figlia di Amendola e di sua moglie Germaine, Ada, di soli trentotto anni, è gravemente ammalata. Quando, nel giro di pochi mesi, muore, al messaggio che Oriana Fallaci gli invia, Amendola risponde con una lettera «splendida e triste», addolorato dal rimpianto di avere dedicato più tempo al lavoro che alla figlia e invitandola a non fare altrettanto con sua madre, che sapeva afflitta da un morbo incurabile: «Il rimorso di averle negato un’ora di compagnia per correre a Bruxelles poi uccide». Più avanti, in seguito alla lettura di , Amendola le spedisce un’altra lettera, dicendole d’avere pianto perché aveva riconosciuto se stesso nella donna che aspetta il bambino e lo perde, e sua figlia nell’embrione che doveva nascere. Per lui era un libro sulla morte e sul dolore, scritto da chi il dolore lo conosce e lo capisce. «Ebbene», conclude Oriana Fallaci, «stavolta fui io a piangere leggendo lui. V’era in quell’omaccione burbero, sanguigno, sassoso, una delicatezza quasi femminile».3
Ma da dove veniva questa delicatezza e questa diversità rispetto agli altri politici del suo tempo? Attraverso quali esperienze si era formata, e custodita?
La sua vita, così romanzesca e avventurata, Amendola l’aveva raccontata in due libri premiati da un vasto pubblico di lettori, alla loro uscita: (1976) e (1980). Era nato a Roma nel 1907, e aveva avuto un’infanzia precoce. Il suo primo ricordo risale al 1910: è sull’automobile rossa di uno zio, una De Dion-Bouton, in via Dandolo, ai piedi del Gianicolo. Abitano in via Paisiello, numero 15, a ridosso di villa Borghese, allora ancora ingombra dei padiglioni della fallimentare Esposizione Universale del 1911, e la sua non è una famiglia come tutte le altre. Suo padre Giovanni riceve visite di scrittori e uomini di lettere come Papini e Prezzolini; la madre, Eva Kühn, di Vilnius, a quel tempo provincia dell’impero russo, è una donna poliglotta, traduttrice, studiosa di Dostoevskij. Tra i vicini di casa, ci sono lo scultore Arturo Dazzi e lo scrittore e critico letterario Giuseppe Antonio Borgese. Vivono di traduzioni e di collaborazioni malpagate, ma il loro appartamento è sempre pieno di amici. Giorgio cresce così in mezzo ai libri e a sollecitazioni d’ogni genere e già alle elementari, scriverà con orgoglio, è promosso bibliotecario di classe. Gli viene inoltre consegnato un vasto patrimonio orale di leggende famigliari riguardo ai suoi antenati. Nel frattempo, il padre decide di passare al giornalismo e la madre diventa futurista. Un giorno Balla, per farlo stare tranquillo, gli presta carta e matite e a un suo scarabocchio scrive: «Bravo, sei un vero pittore futurista». Anche Marinetti frequenta la sua casa. Ma questo periodo felice è destinato a finire. Scoppia la guerra, e Giovanni Amendola, interventista, viene arruolato. Poco dopo, al piccolo Giorgio una febbre reumatica scompensa il cuore: gli viene diagnosticata una stenosi mitralica che lo accompagnerà per tutta la vita. Gli capita anche di assistere alla carica della cavalleria contro una manifestazione di operai. Nel 1917 sua madre decide di abbandonare via Paisiello, e di traslocare ai Castelli.
Se l’infanzia era stata precoce e ricca di stimoli, l’adolescenza è disordinata. Il matrimonio tra i genitori entra in crisi, ma sopravvive. Un piccolo episodio è esemplare del clima di grande confusione del dopoguerra: Eva Kühn, al seguito di Marinetti, è spedita a fare propaganda elettorale per i fascisti in un comune alla periferia di Milano, ma, imbattutasi in un gruppo di operai, torna da quella missione semianarchica. Il padre, invece, viene eletto deputato, e poi diviene ministro.4 È un liberale, legalitario, di grande onestà e di forti convinzioni morali, che si guadagna la stima di molti: una mattina si rifiuta di dargli un passaggio sull’automobile ministeriale perché le automobili di stato, a suo dire, non devono servire alle famiglie dei ministri.
Giorgio si iscrive al liceo Visconti. Studia in maniera irregolare, legge di tutto: molta letteratura (Dumas, Stendhal, Dickens, Balzac, Stevenson, Hugo, Tolstoj e Dostoevskij che Eva instancabilmente traduce) e parecchi libri di storia, in particolare del Risorgimento. Ama il teatro, gioca a calcio, come mediano destro; il padre gli impartisce anche qualche lezione di boxe. Ma quando ha quattordici anni, durante un’estate a Capri, sua madre inizia a soffrire di febbri cerebrali: ha delle crisi, viene ricoverata in alcune case di salute per brevi periodi, a Capodimonte, a Viterbo. Giorgio va a trovarla una volta al mese.
Si moltiplicano intanto le violenze fasciste. Viene devastata la casa di Nitti, e il giorno di Santo Stefano del 1923 suo padre subisce la prima aggressione. Una squadraccia scende da un’automobile e lo colpisce alle spalle con delle manganellate. L’attacco era stato organizzato nella sede della caserma della milizia fascista di via Magnanapoli. A Mussolini comunicano l’accaduto a Milano, e lui risponde che avrebbe mangiato con più appetito. Dopo il delitto Matteotti, il clima si fa ancora più pericoloso. Suo padre comincia a dormire fuori casa e a cambiare di continuo domicilio; Giorgio lo accompagna in questi alloggi di fortuna, ma anche la polizia segue i loro spostamenti. È il periodo della crisi dell’Aventino.
Per la comune passione per il teatro, Giorgio diventa amico di Galeazzo Ciano. Lo conosce quando viene arrestato la prima volta per avere fischiato una commedia. Ciano è intelligente, vivace, scrive per come critico teatrale. Ma è cinico. Un giorno Giorgio gli chiede: «In fondo pensiamo le stesse cose. Perché non sei antifascista?» Ciano risponde: «Fossi fesso. Tu sei figlio di un leader antifascista e io di Costanzo Ciano che è presidente della Camera. Ho la carriera assicurata. Dovrei rinunciarvi?»5
Nell’estate del 1925, a Montecatini, Giovanni Amendola viene aggredito una seconda volta da una quindicina di fascisti locali. Lo caricano di peso su una macchina e in un luogo prestabilito, tra Monsummano e Serravalle, in località Ponte a Nievole, lo colpiscono con meticolosità. Nessuna parte del corpo viene risparmiata. Festeggiano poi in un’osteria, con i manganelli ancora insanguinati, e bisognerà aspettare un’altra estate di quasi vent’anni, nel 1944, quando Montecatini sarà liberata, perché alcuni dei suoi assalitori siano finalmente arrestati.
Suo padre resta a letto a lungo. Ha un’amica che lo assiste e lo aiuta, Nelia Pavlova,...