E-Book, Italienisch, 252 Seiten
Reihe: Figure
Alessandri Visione notturna
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-155-0
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Capire noi stessi nei momenti bui
E-Book, Italienisch, 252 Seiten
Reihe: Figure
ISBN: 979-12-5480-155-0
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
In una società fondata sugli insegnamenti delle antiche filosofie occidentali, i nostri umori più cupi possono apparire irrazionali. Se osservati attraverso la lente della psicologia moderna, vengono spesso caratterizzati come disturbi mentali. L'industria dell'auto-aiuto, determinata a venderci la promessa di un futuro sempre sereno, a volte ci lascia in preda alla vergogna: perché siamo sbagliati? Perché non siamo più grati, felici, ottimisti? Con un'argomentazione solida e coraggiosamente intima, la filosofa esistenzialista Mariana Alessandri reagisce contro questo sistema di valori e ci conduce in un viaggio in compagnia dei nostri stati d'animo oscuri - rabbia, tristezza, lutto, depressione e ansia - e di un eterogeneo gruppo di pensatori che nel Diciannovesimo e Ventesimo secolo hanno provato a trattenersi nel buio. Questi intellettuali, che con le emozioni 'negative' hanno imparato a convivere fino a quando la vista non si è abituata all'oscurità, possono aiutarci a comprendere che la sofferenza non implica che siamo difettosi, piuttosto la cognizione del dolore è indice di sensibilità, perspicacia e intelligenza. Affidandoci a tutti loro - da Audre Lorde a María Lugones, da Miguel de Unamuno a C.S. Lewis, da Søren Kierkegaard a Gloria Anzaldúa - potremo esplorare un approccio diverso, smettendo di stare male per il fatto stesso di stare male. Perché 'ogni stato d'animo è un nuovo paio di occhi attraverso cui vedere un mondo che altri non possono - o non vogliono - vedere'.
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Introduzione
Dubitare della luce
Ci sono momenti, molti dei quali teniamo segreti, in cui sprofondiamo nel buio – lunghi giorni di oscurità e ombre, ore in cui il dubbio ottenebra la mente, una depressione così profonda che sembra impossibile trovare una via di uscita. Non vogliamo altro che un po’ di luce, un po’ di chiarezza, un po’ di sole. Sogniamo l’alba di un nuovo giorno. Anche quando stiamo bene, invochiamo la luce piuttosto di frequente. “Vediamo la luce”, abbiamo un momento di “illuminazione”, cerchiamo “la luce in fondo al tunnel”. Siamo attratti dalle persone che “brillano”, che hanno un sorriso “radioso”. Siamo stati cresciuti a forza di luce, quantomeno negli Stati Uniti – storicamente una terra di imprese individuali, progresso e ottimismo, e devota al potere del pensiero positivo. La associamo a tutto: alla sicurezza, all’intelligenza, alla pace, alla speranza, alla purezza, all’ottimismo, all’amore, alla felicità, al divertimento e alla frivolezza. A tutto ciò che è buono. Sommate tra loro, queste piccole equazioni producono la Metafora della Luce, la quale stipula che la luminosità è preferibile alla penombra, che con il sole si è più felici che con le nuvole, che uno stato d’animo radioso è preferibile a uno cupo.
Questo è un libro sul bisogno di associare la luce al bene e l’oscurità al male. Indagheremo le origini di questo binomio, le sue promesse e, in ultimo luogo, i suoi effetti negativi. È comprensibile voler evitare l’oscurità, ma a forza di rincorrere la luce rischiamo di farci del male. Ciò di cui abbiamo bisogno da qui in poi è smettere di provare a illuminare l’oscurità e, invece, imparare a vedere al buio.
Per quasi duemilacinquecento anni filosofi come me hanno usato luce e buio come metafore di conoscenza e ignoranza, di bene e male. Nella Platone suggerì questo binomio attraverso il personaggio di Socrate, che ai suoi amici racconta una storia su un gruppo di prigionieri rinchiusi in una caverna contro la loro volontà, ignari che fuori vi sia il sole. Semestre dopo semestre, sono tanti i filosofi che infliggono questo mito ai loro studenti alle prime armi. Io lo faccio nella lezione inaugurale del mio corso introduttivo alla filosofia.
Mentre io e i miei studentia leggiamo la descrizione che Platone traccia della caverna, domando loro di disegnarne uno schizzo su un foglio. Ne interpreteremo il significato più avanti, dico, ma poiché la scena in sé è difficile da immaginare, prima dobbiamo metterla nero su bianco.
“Cosa c’è nella caverna?” chiedo.
I prigionieri, una parete, il fuoco, alcuni burattinai e un’uscita.
“Prima di tutto posizionate i prigionieri,” dico. Sono umani come noi e questo sembra un dato importante. Un laureando in Filosofia mi risponde che i prigionieri hanno le catene in tre punti del corpo: al collo, ai polsi e alle caviglie. Sono obbligati a rimanere seduti e non possono girare la testa, neanche per guardarsi attorno. Vedono solo quello che hanno di fronte, ma possono sentirsi tra loro. Per tutto il giorno, ogni giorno, i prigionieri immaginati da Platone fissano una parete. Poveracci.
“Ottimo. Disegnate la parete. Cosa c’è sopra?” Con l’angolo dell’occhio scorgo una matricola taciturna che scarabocchia qualcosa, ma ho il sospetto che non si tratti della caverna. Sembra avere la mente altrove, e non è l’unica.
“Ombre,” borbotta uno studente in tuta.
“Di cosa?” insisto.
“Di animali, alberi, persone”. Succede spesso che il primo giorno di lezione gli studenti rispondano a monosillabi a questa domanda. Non osano discostarsi dal copione che conoscono da quando avevano cinque anni. Col tempo si rilasseranno e si azzarderanno a pensare a voce alta.
“Come ci sono arrivate le ombre?” continuo.
Un allievo zelante dichiara che sono i burattini a produrre le ombre sulla parete.
“Ah. Quali burattini?” domando.
“C’è un fuoco che brucia nella caverna,” risponde qualcuno, “e i burattinai usano quella luce per proiettare le ombre sulla parete”.
“Intendi come nelle camerette dei bambini, dove la luce di una lampada è sufficiente per ricreare un teatro delle ombre?” provo a chiarire.
“Esatto”.
“Perché stanno lì a proiettare ombre di burattini sulla parete di una caverna?” Faccio loro questa domanda sfruttando la confusione prodotta dalla prima lettura. Voglio stuzzicare la curiosità dei miei studenti e fargli mettere in discussione la sanità mentale di Platone. Quello che ancora non sanno è quanto rapidamente ci sposteremo da domande che servono a chiarirgli le idee a domande che li metteranno a disagio.
Nessuno mi sa dire la ragione per cui i burattinai di Platone manipolano la mente dei prigionieri della caverna. Capiscono, però, che i prigionieri scambiano quelle ombre per degli oggetti reali. Non avendo mai visto un vero albero, pensano che le ombre degli alberi siano alberi. I prigionieri sono persino in competizione tra loro: chi ne vede di più? Chi riesce a individuare l’albero più alto? In questa caverna, il proprio valore si determina in base alla capacità di muoversi in un mondo fatto di sole ombre.
Ecco quindi che immaginiamo la caverna: è un luogo buio pieno di poveracci che passano la vita a comprendere la realtà per approssimazione. Gli studenti capiscono perché i prigionieri non si ribellino: non sanno che quella realtà non è affatto reale. Qualcuno suggerisce che Platone stia dicendo che siamo noi i prigionieri. Qualcun altro che crediamo alle bugie dei media. Un terzo studente si domanda se stiamo vivendo col pilota automatico. A questo punto, in ogni caso, concordiamo sul fatto che Platone ci stia dicendo qualcosa. Ritiene che siamo tutti prigionieri e che ci sia qualcosa che abbiamo profondamente frainteso. Non sappiamo, però, cosa sia o per quanto tempo vi abbiamo creduto. Alcuni studenti chiudono gli occhi. Altri sospirano. Iniziano a rilassarsi e si guardano attorno increduli. Sono perplessi.
Questa storia ha una sorta di lieto fine: un prigioniero riesce a liberarsi dalle catene prima di essere trascinato a forza fuori dalla caverna. Il suo corpo è esposto alla luce del giorno, e lui per prima cosa ripara gli occhi nell’incavo del gomito. Per settimane non è in grado di riconoscere niente alla luce, se non ciò che gli è familiare, come le ombre sul terreno e i riflessi sull’acqua del lago. È cieco fin quando il sole non tramonta e può mettere a fuoco gli alberi sulla riva.
Il nostro eroe impiega molto ad abituarsi alla luce. Via via che gli occhi si adattano, riesce a distinguere gli alberi veri. Col tempo, accetta quello che i miei studenti stanno prendendo in considerazione ora per la prima volta: che persino le nostre convinzioni più radicate possono essere sbagliate.
Una tipica interpretazione del mito della caverna di Platone è quella a cui giungono anche i miei studenti: il sole è salvifico. Chi tra loro è credente identifica il sole con Dio; chi è ateo preferisce chiamarlo Verità. Siamo comunque tutti d’accordo sul fatto che è il sole a permettere al prigioniero liberato di vedere per davvero il mondo. Qualcuno paragona l’abituarsi al sole all’istruzione. È un processo di lenta uscita dall’ignoranza verso la conoscenza, dall’oscurità alla luce. Per quanto doloroso possa essere all’inizio, ammettono gli studenti, il sole alla fine salva il prigioniero. È qualcosa che possiamo capire tutti. Anche a noi hanno insegnato a procedere verso la luce.
Arrivata ai diciotto anni, avevo accumulato la mia buona dose di amore e luce. Avevo passato le estati distesa su un telo al caldo di Rockaway Beach a New York. Così, quando all’università ho appreso le origini filosofiche della Metafora della Luce, ero pronta. Mi sono laureata tenendomi stretta una certezza, la stessa a cui i miei studenti si aggrappano per smettere di sentirsi sballottati da una parte all’altra: la luce è necessaria per conoscere la verità.
Il mio problema con questa impostazione è che io, dal punto di vista emotivo, sono sempre stata una persona cupa. Ho la rabbia nel DNA e passo la maggior parte del tempo a sentirmi triste. Credo che il mondo sia un posto straordinariamente tragico, con giusto qualche raggio di sole che spunta di tanto in tanto. Come l’asinello pessimista amico di Winnie the Pooh, nel profondo mi sono sempre sentita Ih-Oh.
Se siete come me, saprete che non è facile essere un Ih-Oh in un mondo che preferisce Tigro, essere una nuvola di pioggia a cui viene detto che è meglio il soleb. Per chi tra noi ha la tendenza ad adombrarsi è difficile evitare di essere bombardati dalla positività, un sassolino di buonumore alla volta. La televisione, Twitter, Instagram, Pinterest, i podcast, i libri di auto-aiuto, le t-shirt, i cuscini, gli adesivi sui paraurti, le tazze e i poster vogliono tutti che viviamo la vita al meglio. Negli anni Ottanta c’erano la canzone di Bobby McFerrin e il grande smile giallo di Walmart. Oggi c’è il carosello per bambini . I malumori faticano ad attirarsi la compassione in un mondo che vorrebbe...




