Alderman | Disobbedienza | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 296 Seiten

Reihe: Narrativa

Alderman Disobbedienza


1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7452-744-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 296 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 978-88-7452-744-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



DALL'AUTRICE DI RAGAZZE ELETTRICHE DA QUESTO ROMANZO IL FILM DEL PREMIO OSCAR SEBASTIÀN LELIO CON RACHEL WEISZ E RACHEL MCADAMS VINCITORE DEL SUNDAY TIMES YOUNG WRITER OF THE YEAR AWARD 2007 E DELL'ORANGE AWARD FOR NEW WRITERS 2007 Ronit, figlia di un rabbino, cresce all'ombra dell'universo claustrofobico e insieme rassicurante di una comunità ebraica ortodossa, i cui tempi sono scanditi dalle regole del rapporto con Dio e la Sinagoga. Insofferente a quel mondo ultra-ortodosso, se ne distacca in nome di una trasgressione che le permette di recuperare un'identità e una diversità. Da un sobborgo ebraico londinese allo sconcertante paradiso di libertà e autoaffermazione di Manhattan, da cui torna per la morte del padre, la protagonista compie un viaggio à rebours ricco di scoperte esilaranti ma anche molto dolorose. Figlia lei stessa di un rabbino londinese, Naomi Alderman con questo suo primo romanzo pubblicato per la prima volta in Italia nel 2007 ha conquistato il pubblico, la critica e i prestigiosi premi Orange Award for New Writers 2006 e Sunday Times Young Writer of the Year Award 2007.

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1


  E di Shabbat i sacerdoti cantavano un canto per il mondo che verrà, per quel giorno in cui sarà solo Shabbat e per il riposo della vita eterna.
  Mishnah Tamid 7:4, recitato durante il servizio del Sabato mattina

Arrivati al primo Shabbat successivo alla festa di Simchat Torah, Rav Krushka era ormai cosí magro e pallido che, cosí mormorava la congregazione, nei suoi occhi vuoti si poteva vedere l’aldilà.

Il Rav li aveva accompagnati per tutto il tempo delle feste maggiori, rimanendo in piedi per le due ore del servizio con cui si conclude il digiuno di Yom Kippur, anche se piú volte aveva roteato gli occhi come se stesse per svenire. Aveva perfino danzato allegramente con i rotoli della Torah, anche se solo per pochi minuti. Ma ormai che le feste erano passate, l’energia vitale lo aveva abbandonato. In quel giorno afoso di un settembre che volgeva alla fine, con le finestre chiuse e il sudore che imperlava la fronte di tutti i membri della congregazione, il Rav, sostenendosi al braccio del nipote Dovid, era imbacuccato in un cappottone di lana. La voce era debole, le mani gli tremavano.

La situazione era chiara. Lo era già da qualche tempo. Da mesi, la sua voce, una volta cosí piena e limpida come il vino rosso del Kiddush, era divenuta roca e rotta da una tossetta secca o da una forte crisi di vomito e soffocamento. E tuttavia era difficile credere a una vaga ombra nel polmone. Chi avrebbe potuto vedere un’ombra? La congregazione non poteva credere che Rav Krushka potesse soccombere a un’ombra – proprio lui da cui la luce della Torah sembrava emanare con tale splendore che tutti si sentivano illuminati dalla sua presenza.

La voce girava per la comunità, se ne parlava per strada, negli incontri casuali. Uno specialista di Harley Street gli aveva detto che per guarire gli sarebbe bastato un mese di riposo. Un Rebbe famoso aveva fatto sapere che lui e cinquecento giovani studenti della Torah recitavano l’intero Libro dei Salmi ogni giorno per la guarigione di Rav Krushka. Il Rav, si diceva, aveva ricevuto un sogno profetico in cui gli veniva annunciato che sarebbe vissuto fino a veder posare la prima pietra del Bet HaMikdash di Gerusalemme.

E d’altra parte ogni giorno sembrava piú fragile. Del suo problema di salute si parlava ormai ovunque a Hendon e anche altrove. Come sempre succede in questi casi i membri della congregazione che qualche volta saltavano una settimana in sinagoga, o magari quelli che a volte seguivano un altro servizio religioso, avevano cominciato a pregare pieni di sacro ardore. Di settimana in settimana in sinagoga il numero di fedeli andava aumentando. Il goffo edificio – che in origine altro non era che due villini a schiera riuniti e svuotati – non era stato pensato per tutta quella gente. Durante le funzioni, l’aria dopo un po’ era viziata, surriscaldata e maleodorante.

Da uno o due membri del consiglio della sinagoga era venuta la proposta di tenere un servizio alternativo per fare fronte alla grande e insolita affluenza. Yitzchak Hartog, il presidente del consiglio, si era opposto. Quella gente era venuta a vedere il Rav – aveva sentenziato –, e il Rav avrebbero visto.

Fu cosí che quello Shabbat del mese di Tishri, con la sinagoga strapiena, i membri della congregazione erano concentrati, triste a dirsi, piú sul Rav che sulle preghiere che rivolgevano al Creatore. Per tutta quella mattina lo osservarono ansiosi. Vero è che Dovid era al fianco dello zio, che si sosteneva appoggiato al suo gomito destro, e per lui reggeva il siddur. Ma i fedeli bisbigliavano: non era possibile che la presenza di un uomo come quello ostacolasse la guarigione invece di agevolarla? D’accordo, Dovid era un rabbino, ma certo non era un Rav. La distinzione era sottile, perché si poteva diventare rabbini semplicemente studiando con successo, mentre il titolo di Rav lo assegna la comunità a una guida particolarmente amata, un faro, uno studioso di straordinaria saggezza. Rav Krushka era tutte queste cose, senza ombra di dubbio. Ma Dovid? Aveva mai parlato in pubblico o fatto uno splendido discorso sulle parole della Torah? Ancor meno scritto un libro forte e ispirato come quelli del Rav. No, niente di tutto ciò. Dovid era di aspetto insignificante: basso, tendente alla calvizie, un po’ sovrappeso, ma quel che piú conta è che in lui non c’era quella tempra, quel fuoco, che animava il Rav. Nemmeno uno dei membri della congregazione, nemmeno il piú piccolo dei mocciosi, avrebbe dato a Dovid Kuperman il titolo di “Rabbino”. Lui era “Dovid” o anche, a volte, soltanto “quel nipote del Rav, l’assistente”. E poi, quanto alla moglie! Era noto che qualcosa non andava in Esti Kuperman, che ci doveva essere qualche problema, qualche dramma. Ma queste sono storie che vanno sotto il nome di lashon hara, pettegolezzi delle malelingue, e non dovrebbero essere nemmeno bisbigliate nella casa del Signore.

Comunque tutti erano d’accordo che Dovid non rappresentasse il sostegno giusto per il Rav. Il Rav avrebbe dovuto essere circondato da uomini saggi, che conoscevano profondamente la Torah, capaci di studiare notte e giorno, e cosí allontanare la mala sentenza. Era un peccato, pensavano alcuni, che il Rav non avesse un figlio che potesse studiare nel suo nome, prolungandogli cosí la vita. Peccato, anche, che non avesse un figlio che potesse essere a sua volta Rav, dopo la sua morte. E dunque chi ne avrebbe preso il posto? Pensieri che circolavano da mesi e che si facevano piú distinti nel caldo secco della sinagoga. Perché man mano che l’energia del Rav si era andata prosciugando, anche Dovid sembrava essersi incurvato col passare delle settimane, come se avesse patito il peso di tanti sguardi puntati sulle sue spalle e se la violenza del loro disappunto gli pesasse sul petto. Ormai durante la funzione religiosa non diceva piú nulla, né mai distoglieva lo sguardo dal siddur di cui continuava a voltare le pagine concentrandosi sulle parole della preghiera.

Verso metà mattina era evidente a tutti i presenti che il Rav stava peggio che mai. Si curvavano per infilarsi in tutti gli angoli e in tutte le nicchie dei muri dove un tempo c’erano stati camini e dispense, e trascinavano le sedie di plastica un po’ piú vicino a lui, per osservarlo meglio, per indurlo a resistere con la forza del loro desiderio. Durante il servizio mattutino di Shacharit, il caldo andò aumentando sempre piú e ognuno si rese conto che, malgrado i calzoni, si stava appiccicando alla sedia. Il Rav s’inchinò durante il modim, poi si tirò su di nuovo, ma la mano con cui si aggrappava al banco era bianca e scossa da un tremore e sul volto, pur concentrato, si stampava una smorfia a ogni movimento.

Perfino le donne, che seguivano il servizio dalla galleria superiore costruita lungo tre pareti della sala e che spiavano dallo schermo a rete, si rendevano conto che le forze l’avevano quasi abbandonato. Quando fu aperto l’aron, dai rotoli della Torah esalò una fragranza di conifera che investí i fedeli e sembrò scuotere il Rav che si alzò di nuovo. Ma non appena fu richiusa, ripiombò a sedere, come cedendo alla forza di gravità piú che per una decisione consapevole. L’energia che fino a quel momento lo aveva sostenuto lo abbandonò e lui si afflosciò sulla sedia. Verso metà della lettura prevista della Torah non c’era membro della congregazione che non cercasse insieme a lui di tirare un altro roco, penoso, respiro. Se non ci fosse stato Dovid, il Rav sarebbe crollato al suolo. Anche le donne lo avevano visto.

Esti Kuperman aveva seguito il servizio dal matroneo. Tutte le settimane le era riservato un posto d’onore, in prima fila, vicino alla tenda a rete, ma in verità la prima fila non veniva mai occupata, perfino in momenti come questo, in cui ogni posto era necessario. Le donne restavano in piedi in fondo alla galleria, invece di prendere un qualche posto in prima fila. E tutte le settimane Esti stava lí da sola, senza mai girare il collo delicato, senza mai mostrare con parole o sguardi di aver notato i posti vuoti a destra e a sinistra del suo. Prendeva posto in prima fila perché era quello che ci si aspettava da lei in quanto moglie di Dovid. Dovid stava al fianco del Rav. Se la moglie del Rav non fosse morta, il posto di Esti sarebbe stato al suo fianco. Quando, a Dio piacendo, avessero avuto dei figli, i figli l’avrebbero accompagnata. Allo stato attuale delle cose, stava sola.

Nel settore riservato alle donne, piú indietro, non si vedeva proprio niente del servizio. Alle donne che occupavano quei posti arrivavano solo le melodie, come nelle camere del Cielo, le cui porte si aprono solo ai canti. Esti però poteva osservare la sommità delle teste sotto di sé, tutte col copricapo ovale o decorate dal cerchio della kippa. Col tempo cappelli e kippot, ogni diversa macchia di colore, avevano assunto per lei una propria, diversa, personalità. C’era Hartog, il presidente del consiglio, dalla struttura solida e muscolosa, che faceva su e giú anche durante le preghiere e di tanto in tanto scambiava due parole con un altro membro della congregazione. C’era Levitsky, il tesoriere della sinagoga, che ondeggiava con un movimento nervoso, come un beccheggiare, durante la preghiera. C’era Kirschbaum, uno dei capi, che si appoggiava al muro e sonnecchiava...



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