E-Book, Italienisch, 433 Seiten
Reihe: I Corvi
Aikins Chi è nudo non teme l'acqua
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-7091-846-5
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 433 Seiten
Reihe: I Corvi
ISBN: 978-88-7091-846-5
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
È il 2016 e a Kabul, quando cala il sole, si accendono i falò nei cortili e si brinda in segreto. Si tiene alto il volume dello stereo per cancellare quello che sta fuori: la guerra che va sempre peggio, i talebani che avanzano, mentre i boati delle bombe echeggiano nelle strade. La speranza ha lasciato il posto alla paura e per molti la fuga dal Paese è l'unica via. Anche Omar, un giovane che si guadagna da vivere come interprete per le forze statunitensi, decide di affidarsi ai «facilitatori» che promettono di farlo arrivare in Italia. Ma non è solo: negli anni di lavoro insieme, il giornalista canadese Matthieu Aikins ha imparato a conoscerlo in profondità e a volergli bene. I suoi antenati vengono dal Giappone, e il taglio degli occhi, i capelli e la barba folti e neri gli danno l'aspetto di un afghano. Fingendosi un migrante, Matthieu segue Omar sulla famigerata rotta che porta al Mediterraneo attraverso i passi montani dell'Asia centrale. A sbarrare loro la strada trafficanti spietati che conoscono solo l'alfabeto dell'oro e delle pistole, fiumi insuperabili come interi oceani, frontiere protette da visti, leggi di parlamenti lontani, echi di dibattiti in tv. Ed è il sogno di abbattere questo muro invisibile a spingerli nel mare agitato fra Turchia e Grecia, dove il loro viaggio si trasforma in uno spaventoso inseguimento notturno. Con la costruzione serrata di un thriller e l'acume politico del miglior giornalismo d'inchiesta, Chi è nudo non teme l'acqua è una grande epica contemporanea, una storia universale di amicizia e coraggio, un grido di denuncia che è prima di tutto un atto d'amore.
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Ripartii per New York quasi subito, e quando a fine ottobre tornai con l’aereo vuoto che aveva fatto scalo a Istanbul, al ritiro bagagli di Kabul trovai una folla di uomini in veste bianca che scaricava taniche d’acqua santa della fonte di Zam Zam, portata direttamente dalla Mecca. Il sacro pellegrinaggio () del 2015 era stato un disastro, un fuggifuggi aveva ucciso oltre duemila persone, e un altro centinaio erano morte per il crollo di una gru della Saudi Binladin Group.
Feci passare l’alcol ai raggi X e uscii a cercare Omar nel parcheggio. Le guardie aeroportuali erano tese; poche settimane prima i talebani avevano conquistato Kunduz, una città vicino al confine con il Tagikistan. Le difese governative erano crollate sotto un assalto improvviso e, per la prima volta dal 2001, i talebani avevano issato il loro stendardo bianco in un capoluogo di provincia. Schiere di sfollati calavano su Kabul e diffondevano il panico ovunque. La caduta di Kunduz stava dando ulteriore slancio all’esodo afghano, già alle stelle dopo l’apertura autunnale delle frontiere europee.
Mentre ci allontanavamo dall’aeroporto raccontai a Omar del cosiddetto «corridoio umanitario» aperto nei Balcani per i profughi, ma lui sapeva già tutto, ne aveva sentito parlare dai notiziari. Un miracolo ci aveva spianato la strada, ma lui mi disse che non aveva ancora chiesto la mano di Laila né organizzato la partenza dei suoi genitori. Era complicato, gli occorreva altro tempo. Gli risposi di non preoccuparsi, perché volevo che lavorassimo insieme a un ultimo reportage dall’Afghanistan. Durante la caduta di Kunduz era avvenuto un incidente terribile: una squadra dei Reparti Speciali statunitensi che combatteva a fianco delle truppe afghane per riconquistare la città aveva fatto bombardare un ospedale di Medici senza frontiere e ucciso quarantadue persone. Secondo i militari era stato un disguido, ma io sapevo che le autorità locali l’avevano giurata da tempo all’ospedale, reo di curare anche i ribelli. Volevo indagare e avevo bisogno che Omar mi facesse da autista. Saremmo andati a Kunduz insieme e avrei ultimato l’articolo mentre lui sistemava le cose con Laila. Non c’era bisogno di correre. Confidavo che, in un modo o nell’altro, dall’Afghanistan ce ne saremmo andati insieme. Il nostro viaggio avrebbe chiuso un cerchio, perché sentivo che, fin da quando ci eravamo incontrati, le nostre traiettorie si erano specchiate l’una nell’altra.
Collaboravo con Omar da oltre sei anni e mezzo, da quando avevo pubblicato il mio primo reportage dall’Afghanistan. Era la primavera del 2009, avevo ventiquattro anni e mi aveva incaricato di scrivere un profilo del colonnello Abdul Raziq, comandante della polizia di confine nonché importante alleato dell’esercito americano e, si diceva, sodale dei narcotrafficanti. Avrei voluto raggiungere Kandahar, la provincia di frontiera dove Raziq operava, ma la rivista non aveva abbastanza soldi per pagare gli intermediari più fidati della capitale, gente che chiedeva centinaia di dollari al giorno per lavorare nel Sud, e non sempre aveva il coraggio di andarci.
Alloggiavo al Mustafa Hotel, nel centro di Kabul; lo dirigeva il lugubre Abdullah, che dopo aver ascoltato la mia storia disse che conosceva la persona giusta, un ex interprete militare che stava muovendo i primi passi nel mondo del giornalismo. Così un giorno trovai ad aspettarmi nella hall un ragazzo che sembrava mio coetaneo: Omar. Si alzò di scatto e mi strinse forte la mano con il suo palmo ruvido. «Piacere di conoscerti, fratello», disse. «Vengo io a Kandahar con te, nessun problema.»
Era mezzogiorno e mi chiese se avevo fame. Uscimmo nella via che il Mustafa condivideva con l’ambasciata indiana, un tratto di strada dove la presenza assidua della polizia scongiurava che gli ospiti dell’hotel venissero rapiti ma li esponeva anche alle autobombe che esplodevano di tanto in tanto. La Corolla di Omar era parcheggiata poco lontano. In auto il ristorante non distava molto, ma sulle strade polverose e piene di crepe che costeggiavano il parco di Shahr-e Nau il traffico procedeva a passo di lumaca.
«Kandahar è un puttanaio», mi disse. Il suo inglese quasi ottimo era infarcito di volgarità imparate dai soldati. «Ci sono stato con le forze della coalizione.» Al servizio degli americani, dei canadesi e dei britannici aveva frequentato il Sud per diversi anni, ma cominciava a essere stanco delle pericolose uscite in pattuglia e della noia da caserma, e ambiva a lavorare come mediatore freelance a Kabul, che a quell’epoca pullulava di stranieri.
Anche la vita adulta di Omar, come la mia, era cominciata insieme alla guerra al terrorismo. Nato e cresciuto in esilio, subito dopo l’invasione americana era tornato in patria smanioso di partecipare all’epoca di pace e ricostruzione che si annunciava, ma il Paese era in rovina, e trovare lavoro un’impresa. Aveva sentito che gli eserciti stranieri pagavano bene chi faceva lavori pericolosi giù nella provincia di Kandahar; a un certo punto, nel 2006, era saltato su un autobus senza dire a sua madre dov’era diretto.
Non parlava benissimo il pashtu, la lingua del Sud, ma per carenza di afghani anglofoni fu subito assunto da una delle aziende che fornivano interpreti agli stranieri. Cominciò a lavorare per i canadesi; guadagnava seicento dollari al mese, sei volte lo stipendio di un soldato semplice afghano. Lui e gli altri interpreti vivevano nella gigantesca base militare spuntata nel deserto vicino all’aeroporto, dietro chilometri di bastioni antiesplosivo sormontati da filo spinato, in un reticolo di prefabbricati e ghiaia polverosa che rifletteva il sole accecante. Omar era sbalordito dai possenti veicoli blindati e dai jet che gli facevano battere i denti quando atterravano, dai generatori che giorno e notte tracannavano carburante per alimentare tende con l’aria condizionata e dai camion dalle decorazioni vistose che trasportavano e scaricavano dai porti pakistani un’infinità di bancali di bibite e bistecche surgelate.
Gli occidentali li aveva visti in televisione sin da bambino, ma quello fu il momento in cui Omar cominciò a frequentarli davvero. Come gli altri interpreti, imparò a ottenere la loro fiducia adottandone il gergo e il taglio di capelli, o indossando i loro occhiali; condividendone e rispettandone le regole e l’atteggiamento nei riguardi dei . Gli riusciva facile, perché i canadesi gli stavano simpatici. Venivano da una terra ricchissima ma sembravano molto più generosi e onesti della gente tra cui era cresciuto da rifugiato in Iran e in Pakistan, dove per gli stenti e la paura ci si facevano sgarbi anche tra famigliari. I gli offrivano le loro sigarette tozze e gli regalavano giacche e stivali invernali in materiali sintetici che non aveva mai toccato prima. Avevano, come si dice in persiano, . Dicevano di essere venuti a combattere contro i terroristi e ad aiutare il suo Paese. Omar ci credeva.
Nelle campagne che circondano la città, invece, i talebani guadagnavano terreno. Vista dall’elicottero, la valle verde di Panjwai, con i suoi canali torbidi all’ombra dei gelsi, era ben riconoscibile contro la monotonia del deserto. Filari di melograni riempivano frutteti circondati da muretti di terra, con una mucca, qualche pecora e un cane da guardia. Chi li coltivava aveva la terra in affitto ma non la possedeva, e ne traeva il minimo indispensabile per sopravvivere. Sudati sotto gli elmetti e nelle giubbe antiproiettile, i canadesi pattugliavano argini nella cui terra friabile potevano nascondersi taniche piene di esplosivo artigianale; la chiamavano , «lotteria delle gambe». A volte erano costretti a sparare ai cani dopo un’incursione in uno dei piccoli insediamenti dove avevano perquisito un paio di casse di latta e qualche coperta e materasso, o perlustrato il cortile con le baionette e i metal detector, mentre donne e bambini singhiozzavano piano accanto a giovani accigliati, dalle mani stranamente prive di calli, e ad anziani arcigni che ai loro tempi avevano osservato con quello stesso sguardo torvo i sovietici.
Scortata dalla polizia e dall’esercito afghani, la fanteria canadese pattugliava in grande stile ogni giorno, ma la notte era il regno dei ribelli e degli stranieri che davano loro la caccia, gli uomini barbuti che a Omar capitava di vedere insieme a prigionieri bendati, una delle cose su cui aveva imparato a non fare domande. Anche i talebani catturavano prigionieri, che venivano processati da tribunali religiosi allestiti sul posto; ai «collaborazionisti» come Omar toccava la morte. Tre suoi colleghi interpreti erano stati giustiziati fuori città a colpi di pistola, altri cinque assassinati da una bomba che aveva fatto esplodere l’autobus che li riportava alla base. Sua madre lo scongiurava di smettere, ma Omar aveva bisogno di soldi e tornava di continuo nei centri di Kandahar e Helmand, dividendosi tra i Royal Marines e i Berretti Verdi. Gli interpreti non ricevevano alcun addestramento militare, ma andavano al fronte. Omar vide la sua prima battaglia poco dopo aver cominciato a lavorare, quando i canadesi lanciarono un’offensiva nella valle a ovest di Kandahar. Il suo plotone fu inviato a presidiare una trincea difensiva scavata in mezzo ai vigneti. Mentre per la seconda notte consecutiva Omar cercava di farsi caldo dentro un...




