E-Book, Italienisch, 336 Seiten
Reihe: Sírin
A. Prigov Eccovi Mosca
1. Auflage 2010
ISBN: 978-88-6243-258-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 336 Seiten
Reihe: Sírin
ISBN: 978-88-6243-258-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Un viaggio onirico in una Mosca fantasmagorica, catastrofica, appassionata e appassionante, raccontato dalla penna magica di un moscovita purosangue. Una fluida successione di memorie in cui si fondono frizzante umorismo e ricercato sarcasmo. Ogni immagine ne evoca un'altra e tutto si mescola: discorsi di strada, film americani, fumetti, leggende metropolitane, mitologia, vecchie barzellette e mille altre cose ancora. Un magma linguistico incandescente a cui il lettore, dopo il primo momento di esitazione, non può fare altro che abbandonarsi. Titolo originale: ''Zivite v Moskve'' (2000). Vincitore del premio Russia-Italia per la traduzione di Roberto Lanzi.
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MOSCA-1
Ricordare è facile. Poco tempo fa ripensavo a Leningrado quando mi è venuta in mente Mosca. E precisamente quello che mi era capitato a Mosca in vari anni. E lo stesso, seppur con minime differenze nei nomi delle vie e delle persone – dettagli, questi, trascurabili – è avvenuto a me a Leningrado. E alla città di Leningrado. Poi però mi sono detto: cosa c’è di strano? Del resto sono io che sto ricordando, non qualcun altro.
E mi ricordo proprio un caso in merito ai ricordi. In merito all’azione e al processo stesso del ricordare. L’episodio è talmente significativo che vale la pena riportarlo qui, sebbene appartenga, ovviamente, a un altro periodo, e sia fatto di matria diversa e di parole assolutamente diverse. Ma è davvero assai significativo. Ve lo racconto.
Entro in metropolitana. Prendo la scala mobile. Poco più in basso, uno scalino sotto di me, ci sono due giovani signore di seconda, be’, diciamo di non primissima giovinezza. Vestite niente male. Niente male anche per i nostri tempi di lusso: costose pellicce. Truccate con misura, ma a sufficienza. Con una nota di malinconica indolenza nella voce, una dice all’altra:
– Ho fatto tutto come mi hai detto tu, ma mi è rimasto comunque l’amaro in bocca.
Drizzo le orecchie pronto ad ascoltare, prima che termini la discesa della scala, se non proprio tutto, almeno una buona parte della romantica storia, sul genere della di Cechov. Oppure qualcosa stile . Qualcosa di davvero straziante, strappacuore fin ai più profondi, primitivi precordi.
– Avrai dimenticato di metterci la foglia di alloro – risponde l’altra con un tono grave da maestrina.
Oh Signore! Ma vi rendete conto: lei aveva semplicemente dimenticato di mettere una vile foglia d’alloro! Lo sbigottimento per l’ attesa delusa, per la mia stupida avventata fantasticheria letteraria si manifestò con tale evidenza da costringermi a voltarmi in tutta fretta. Da non crederci. Assolutamente inconcepibile. Tempo dopo ho chiesto chiarimenti a delle conoscenti. Donne esperte mi hanno detto che, probabilmente, stavano parlando di un piatto di pesce. Alcuni pesci tirano fuori un insopportabile sapore amaro che le foglie di alloro effettivamente mitigano, aiutano a neutralizzare. E allora? Forse non si può? Ma certo che si può! Una normale situazione di vita quotidiana. Una cosa naturale, nulla di scandaloso.
Raccontato ai miei amici questo episodio particolare, da più parti sono iniziate ad arrivarmi interessantissime e convincentissime varianti e interpretazioni della stessa storia. E tutti volevano convincermi, ed erano convinti, che fosse capitato a loro. Be’, niente in contrario. Neanche io ormai sono più sicuro di nulla.
Ma torniamo a Leningrado. O meglio, a Mosca. Le città sono tutte uguali. Persino i nomi si somigliano tanto da confonderti le idee. Prendete, per esempio, Mosca e Leningrado. Indistinguibili. Spaventosamente indistinguibili. E comunque, in genere, è sempre tutto uguale. Certo, qualche piccola differenza esiste: in una si usa la parrucca, nell’altra la tunica; da una parte giubbotti, dall’altra berretti con fregi color lampone e con la foglia di alloro di cui sopra. Poco tempo fa, però, mi è capitato di pensare a Bochum e il ricordo è del tutto diverso.
In genere ricordare è facile. Credere è più complicato perché o bisogna credere che tutto sia successo non a te, non qui, in altri tempi, per ragioni non verificabili e con particolari non decifrabili, in presenza di gente non conosciuta, con conseguenze, giustificazioni e sofferenze non prevedibili. Oppure, cosa ancor più complessa, esattamente il contrario. Non c’è alternativa. Vero è che esiste sempre quello che io chiamo la trappola gnoseologica del guizzo. Non prendere una decisione definitiva ma, per così dire, guizzare tra due poli, rimanendo nella zona dell’indecisione, dell’irresolubilità, dell’inafferrabilità a un definitivo giudizio imparziale altrui e, in misura non minore, anche al proprio. Una cosa analoga coincide in pieno con tutte le moderne strategie e condotte nelle arti più contemporanee. È pur vero che tutto il loro radicalismo e la loro famigerata ipermodernità le rendono accessibili a ben pochi. Ma così è. Proprio in queste arti, valendosi dei più disparati metodi di comunicazione, chi parla non rimane invischiato in alcuna particolare stilistica ma, come una pulce su una padella infuocata, saltella dall’una all’altra. Senza mai indugiare troppo a lungo su nessuna in particolare, per non finire impantanato. E, nel contempo, senza involarsi, però, né troppo lontano, né troppo a lungo, proprio per non finire in una zona di non distinzione. Ecco, grosso modo in questo senso e con questo taglio si sviluppa, o meglio si svilupperà, la mia narrazione.
Ecco.
Cosa ricordo? Be’, qualcosa ricordo. Ricordo, per esempio, una piccola, anche se abbastanza nota strada moscovita, via Spiridonievka, che era già stata via Spiridonievka prima di tornare a essere, oggi, via Spiridonievka. Nell’intervallo di tempo – che coincise con il mio soggiorno nei suoi confini – fece in tempo a essere via Aleksej Tolstoj. Ma di questo, dirò più avanti. Anche io ci ho abitato. Molti mi hanno visto. Mi hanno visto, però, in un aspetto così impresentabile, irriconoscibilmente infantile, che adesso non mi riconoscono più. Mi capita di farmi un giro nei posti in cui ho vissuto in passato. Percorro la via, sbircio nelle finestre che un tempo furono nostre, subito dopo l’arco del terzo edificio a partire dal Sadovoe kol’tso, la circonvallazione dei giardini. Ci abita qualcuno. La sera vedo luci accese, teste di persone sconosciute, simpaticamente arruffate alla russa, chine sul tavolo. Vorrei gridar loro:
– Canaglie! Carogne! Ci vivevo io qui! Proprio nel luogo in cui voi, adesso, occupate illegalmente lo spazio della mia infanzia!
– Dove, quale infanzia? – rispondono quelli guardandosi attorno. – La tua infanzia qui non c’è. Cittadino, lei si sbaglia.
– No, no, non mi sbaglio affatto. Si trova proprio qui la mia fragile e indifesa infanzia, calpestata da quei vostri piedi insensibili! Avanti, diteglielo, confermateglielo! – mi avvento sui passanti, afferrandoli per le maniche di .
Quelli, senza fare una piega, disgustati, si tolgono le mie dita di dosso, quasi fossi un ubriaco o un furfante, oppure, peggio ancora, una canaglia lamentosa e appiccicosa:
– No, non ricordiamo! – e proseguono a passo veloce.
– Carogne! Carogne! – singhiozzo.
Nessuno crede che io sia stato e abbia vissuto in quel posto. Va detto che amnesie di questo genere sono fenomeni assai diffusi. Tenere a mente e ricordare gente che cresce e cambia in continuazione è compito ingrato. Di solito ti riconoscono per qualche segno distintivo che non ti riguarda. Magari se ti vedono accanto ai tuoi genitori, o a un parente, a un accompagnatore, o a un tutore, definitivamente e quasi radicalmente cambiati, ma tuttavia riconoscibili. A volte ti ricordano associandoti al posto in cui hai sempre vissuto. Altre per un piccolo toccante o repellente dettaglio: un neo, un ciondolo o un anello, un occhio che ti hanno cavato mentre facevi un gioco pericoloso. Oppure per una gamba che una granata rimasta lì dai tempi della guerra ti ha staccato mentre ci stavi giocando. Nella Mosca di allora, però, dopo tante guerre e terremoti, tutto si era così confuso, c’erano tante gambe e le braccia strappate, occhi cavati e crani spaccati. Ci si trasferiva così spesso da un posto all’altro, erano talmente tanti i parenti che morivano, che distinguere una persona dall’altra diventava assolutamente impossibile. Le persone vagavano da un posto all’altro, senza riconoscersi, come poveri diavoli disperati, come foglie secche sospinte dal vento. I bambini si gettavano al collo dei loro supposti genitori:
– Mammina! Mammina! Papà! Nonnina!
Quelli, inorriditi, li spingevano via:
– Ma chi sei, mostriciattolo? Chi ti conosce! – e inorriditi se la davano a gambe. E quelli li rincorrevano. Genitori e figli si scontravano per strada, formando mucchi indistinti. Sopra si buttavano altri, isterici, insensibili ormai al dolore, al luogo o a tempo in cui tutto avveniva. Facce inondate di lacrime e storpiate dal dolore si trascinavano per le strade, incapaci di rialzarsi sotto l’insostenibile peso delle sofferenze e dei corpi che gli stavano sopra. Molti così si calmavano, schiacciati sotto quella piramide gigantesca che aveva inghiottito tutti gli abitanti di Mosca. A quel punto, le autorità disposero un potenziamento straordinario, quasi grandioso e senza precedenti, delle varie forze di polizia nel tentativo di incanalare il paese nell’alveo dell’autoidentificazione, della memoria e di una qualche capacità di azione. Perché, in un modo o nell’altro, dall’aspetto, dall’uniforme, dalle insegne distintive delle guardie, dai numeri di indetificazione dei lager o da qualche altro segno distintivo, i cittadini riprendessero a riconoscersi l’un l’altro. A poco a poco tutto tornò in ordine. Per quanta resistenza tentassero di opporre alla tenace pressione delle forze dell’ordine, le persone cominciarono a ricordare se stesse, le abitudini, l’ambiente, le spalline degli ufficiali, le scuole per i cadetti. Persino gli abiti da sera e il baciamano alle signore. Cominciarono a ricordare i nomi di gloriosi eroi russi: Suvorov e Kutuzov. Di scrittori: Tolstoj e Dostoevskij. Cominciarono a ricordare molte cose dimenticate. Un mio compagno...




