E-Book, Italienisch, 375 Seiten
Brokken Il giardino dei cosacchi
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7091-383-5
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 375 Seiten
ISBN: 978-88-7091-383-5
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
San Pietroburgo 1849, Fëdor Dostoevskij è davanti al plotone d'esecuzione, accusato di un complotto contro lo zar. Solo all'ultimo secondo viene risparmiato dalla morte e deportato in Siberia. Il ventenne Alexander von Wrangel, barone russo di origini baltiche, ricorda bene la scena quando qualche anno dopo è nominato procuratore della città kazaca dove Fëdor sta ancora scontando la pena, nella logorante attesa della grazia. Due spiriti affini, uniti dal fervore etico e intellettuale e innamorati perdutamente di due donne sposate: il giovane baltico della femme fatale Katja, e Dostoevskij della fragile ed eternamente infelice Marija. Confidenti, complici e compagni di sventura, Fëdor e Alexander si aggrappano uno all'altro come a un'ancora di salvezza nella desolazione siberiana, riuscendo a ritagliarsi un rifugio nel «Giardino dei cosacchi», vecchia dacia in mezzo alla steppa che diventa un'oasi di pensiero e poesia nella corruzione dell'Impero. In un appassionante romanzo «russo» basato su documenti, memorie e lettere giunte fino a noi, Brokken racconta un'amicizia che si intreccia alla storia politica e letteraria di un paese e attraverso la voce del barone Von Wrangel ricompone un ritratto intimo del grande autore ottocentesco. Un uomo «esiliato, tormentato, umiliato e risorto con le sue ultime forze», che vive la scrittura come una necessità febbrile e un'ossessiva indagine sul lato oscuro dell'animo umano, in perenne lotta con i debiti, la malattia e una vita estrema in cui riecheggiano tanti motivi dei suoi capolavori letterari.
Weitere Infos & Material
La congiura
La prima volta che lo vidi indossava la camicia dei condannati davanti al plotone di esecuzione. Lui: un uomo di quasi trent’anni che si preparava alla morte e baciava la croce d’argento che gli porgeva il prete. Io: un ragazzino curioso che a distanza di sicurezza era testimone di cosa fosse l’ingiustizia.
Ero in vacanza. Il 1849 fu l’anno del colera, la gente a San Pietroburgo moriva in massa. Per il rischio di contagio il nostro liceo venne chiuso già prima di settembre. Abitavo da uno zio e per mesi non feci che ciondolare per casa.
A dicembre la direzione della scuola ci consigliò di tornare dalle nostre famiglie per trascorrere le feste. Fuori città c’erano meno vittime e pensai di mettermi in viaggio per Terpilicy. La tenuta era a sole 70 verste da Pietroburgo e si poteva raggiungere in un giorno. Forti nevicate non ce n’erano ancora state, la strada doveva essere accessibile, si poteva fare; invece mi trattenni da mio zio, il barone Nikolaj Korf,1 che abitava in una piccola casa di legno all’angolo della Prospettiva Litejnyj con la Kirocnaja. Quando uno ha diciassette anni, non si cura tanto della famiglia e considera la città di gran lunga più eccitante della campagna, specie in inverno. In realtà mancavano ancora tre mesi al mio diciassettesimo compleanno,2 ma mi sentivo già un uomo fatto e in più ero altissimo per la mia età. Be’, certo, a Natale avrei voluto essere a casa, se non fossi stato sicuro che mio padre mi avrebbe fatto un rimprovero dietro l’altro. Ordine e disciplina erano le sue più alte priorità ed era convinto che «quelli come noi» dovessero essere un esempio per gli altri in tutto.
Ero di famiglia nobile. Naturalmente, altrimenti non avrei potuto frequentare il Liceo Imperiale, ma non era una nobiltà alta e per di più eravamo di origine straniera, tedesca e svedese. I Wrangel possedevano tenute nelle province di Estonia e Lettonia e nei dintorni di Pietroburgo, e appartenevano ai baroni baltico-tedeschi, tutt’altro che popolari in Russia, e tuttavia molto richiesti per gli incarichi statali. Avevano fama di lavoratori instancabili e meticolosi, cosa di cui, nel mio caso, dubitavo. Mi sentivo pietroburghese come il porfido della Prospettiva Nevskij e, in tutta sincerità, mi piaceva oziare.
Con mio zio mi trovavo meglio che con mio padre. Che lo zio Nikolaj rivestisse una carica importante al servizio dello zar non gli si leggeva in faccia né si intuiva dal tono della voce. Per essere un generale – era comandante degli insediamenti agricoli militari – parlava piano. Arrossiva facilmente, mentre raccontava un aneddoto gustoso dopo l’altro. Ciò che più mi piaceva in lui era che non continuava ad assillarmi che dovevo diventare «un uomo», come faceva mio padre, che per «uomo» intendeva un docile sgobbone più che un esploratore di terre sconosciute.
Il mattino del 22 dicembre mi ero alzato intorno alle otto. Per mio padre quell’ora tarda sarebbe stata la dimostrazione della mia scioperatezza, ma per lo zio era normalissimo – del resto ero in vacanza. «Alexander Igorovic», mi ripeteva, «goditela, ragazzo. La libertà è come un palloncino, prima che tu te ne accorga qualcuno lo buca.»
Quando aprii le tende della mia stanza, vidi passare una lunga fila di slitte chiuse, ognuna trainata da due cavalli. Non lo trovai strano, con slitte del genere venivano trasportati gli allievi della scuola di danza del Teatro o le alunne dell’Istituto Smol’nyj, la scuola che educava le ragazze nobili a diventare dame di corte, e che non distava molto dalla casa dello zio. Era solo che la fila era sorprendentemente lunga: contai dodici, tredici, quattordici, quindici slitte. Arrivavano scivolando dal ponte sulla Neva e proseguivano sull’ampia Litejnyj in direzione della Prospettiva Nevskij.
Mi insospettii solo quando ai due lati della strada notai i gendarmi a cavallo, impettiti e con la sciabola sguainata. In quel preciso istante entrò zio Vladimir, il fratello minore di mio padre. Mi disse concitato che i condannati a morte del gruppo di Petraševskij venivano portati al campo di esercitazioni del reggimento Semënovskij e che per loro era suonata l’ultima ora.
Erano mesi che seguivamo con interesse Petraševskij. Nell’aprile del 1849 – avevo appena compiuto sedici anni ed ero passato in terza liceo – venimmo a sapere che la polizia segreta aveva sventato una cospirazione. Erano stati arrestati una trentina di giovani della cerchia del socialista utopico Petraševskij. Tra loro si trovavano diversi ex alunni del nostro liceo, in primo luogo Nikolaj Spešnev, che sarebbe passato alla storia come «il terrorista» della compagnia, e poi Aleksandr Evropeus e Nikolaj Kaškin. Anche il capo del movimento, Michail Butaševic-Petraševskij, usciva dalla nostra scuola. Li avevo conosciuti tutti agli incontri del nostro giro di amicizie. Venivano spesso al liceo a trovare i loro ex compagni più giovani.
Il nostro Liceo Imperiale non era molto ben visto dalle autorità. Secondo lo zar Nicola vi regnava «uno spirito cattivo». Era stato fondato da suo fratello, il nome completo era Liceo Imperiale Alessandro e aveva sede in una dépendance del Palazzo di Caterina a Carskoe Selo. Da quando era stato trasferito a Pietroburgo, in un edificio moderno sulla Prospettiva Kamennoostrovskij, lo zar Nicola era convinto che il liceo esercitasse una cattiva influenza sulla città, e la città sul liceo.
Le idee liberali entravano nella testa degli studenti più facilmente delle declinazioni latine, questo era vero. Né si poteva negare che seguissimo con attenzione i movimenti politici e sociali attivi nella capitale, anche se spesso ci perdevamo in chiacchiere e in enfatiche millanterie. Ho l’impressione che le autorità avessero di noi un’opinione troppo alta.
La diffidenza dello zar doveva essere nata già da prima, nel dicembre 1825, quando la parte benpensante della nobiltà si era ribellata all’autocrazia e l’allievo più illustre del nostro liceo, Aleksandr Puškin, aveva simpatizzato apertamente per i decabristi.3 Lo zar, il cui governo iniziò con la soppressione sanguinosa della rivolta, rimase a vita sospettoso verso tutto ciò che era giovane e appassionato. Per Nicola non vi erano dubbi che il nostro liceo producesse tanti agitatori quanti fedeli servitori dello Stato. Ancora nel 1853, quando passai gli esami di licenza, a scuola era proibito pronunciare la parola «decabrista». Tutto ciò che si riferiva al mese di dicembre riapriva nello zar vecchie ferite.
Forse la sua diffidenza non era del tutto ingiustificata. Da figli di principi, marchesi e conti c’era da aspettarsi che fossero per il mantenimento dell’ordine costituito, ma era vero il contrario. E per quanto riguardava la direzione scolastica le cose non andavano molto diversamente. L’ispettore del nostro liceo, il colonnello Miller, era un parente stretto di Nikolaj Kaškin, una delle figure centrali del circolo di Petraševskij. Tra gli ex alunni, Petraševskij stava diventando popolare come Puškin. Su noi liceali cominciarono a gravare forti sospetti.
In una bella giornata di maggio, poco dopo l’arresto dei cospiratori, ci alzammo alle sei del mattino e sentimmo un rullo di tamburi sulla scalinata esterna dei dormitori. I nostri tutori ci spiegarono che era per via di un decreto dello zar. Da quel momento saremmo stati addestrati alla maniera militare. Sottufficiali del reggimento dei granatieri della guardia furono incaricati di impartirci ordine e disciplina. La loro caserma era adiacente al nostro giardino. A ciascuna classe venne ben presto assegnato un ufficiale della guardia a sostegno dei mentori e fu introdotto l’insegnamento quotidiano di marcia e schieramenti militari.
Gli ufficiali presero a controllare severamente le nostre letture. Requisirono tutti i libri portati da casa e proibirono qualunque giornale. I mentori aprivano addirittura la nostra corrispondenza, specie quella che arrivava dall’estero. Solo il signor Pletz, un mite docente e un tedesco umano ed erudito che aveva studiato all’università di Heidelberg, ci diede l’enigmatico consiglio di mettere via le opere di «versi liberi» o scritte da «den Liberalen». Quella sera stessa, non appena ci addormentammo, un ufficiale della gendarmeria passò al setaccio tutti i banchi. Io non avevo niente di compromettente, tranne qualche poesia di Puškin che avevo copiato da una rivista, ma anche quelle le avevo nascoste sotto il mio materasso di paglia. La perlustrazione ebbe un esito positivo per tutte le classi.
L’arresto del gruppo di Petraševskij rientrava nel clima surriscaldato di quei giorni. Ogni protesta andava soffocata sul nascere. Lo zar Nicola e quanti lo sostenevano e lo affiancavano in tutto e per tutto temevano che i moti rivoluzionari del 1848 contagiassero la Russia. In un primo tempo al liceo fummo costretti a limitarci a congetture su cosa stesse succedendo. Le notizie da Parigi, Berlino e Vienna ci mettevano molto a raggiungere Pietroburgo, e nei giornali censurati captavamo solo di rado un filo di fumo...




